«Si può leggere
in silenzio Shakespeare senza udire neppure mentalmente le
battute e ricavarne grande emozione; anzi, l’emozione teatrale risulta
spesso deludente perché chiunque, o quasi, sia dotato di comprensione
del verso inglese può renderlo più efficacemente dell’attore o
dell’attrice medi.»
(W. H. Auden.
La mano del tintore)
Ricominciamo da zero. Stai leggendo
Shakespeare. E lo fai mentalmente. Leggere senza la voce è una
conquista non antichissima dell’umanità; sant’Agostino ammirava
ancora nel suo maestro sant’Ambrogio la capacità di farlo come
qualcosa di straordinario. Ora leggiamo anche troppo mentalmente. E
infatti: torniamo a Shakespeare e a te. Bene, c’è da tempo chi è
autorevole, al punto da poter sostenere impunemente
che proprio così merita di essere letto Amleto:
che il teatro è l’accidente rispetto al quale, grazie a dio, il testo
sopravvive sempre.
Quindi, viva la lettura mentale e
solinga del dramma, che salva il testo minuzioso, altrimenti
sprecato dall’attorastro nel casualissimo teatro. Charles Lamb
e Henry James pensavano che il Lear fosse un
testo così immenso da non potesse essere recitato in nessun caso, che
ne andassero «evitate le parodie teatrali» (H. Bloom,
Shakespeare, Milano 2003).
Perfino
Friedrich Schlegel (il
traduttore in tedesco di Shakespeare!) e
Goethe (l’autore del
Wilhelm Meister ma anche dell’irrappresentabile Faust)
vedono Amleto come a una tragedia per caso («solo per
caso», J. W. Goethe, Shakespeare senza fine, in Scritti
sull’arte e la letteratura, Torino 1992) che è meglio
leggere che rappresentare, anche se magari in forma di concerto:
ad alta voce.
Un critico importante come Kermode
(F. Kermode, Il linguaggio di Shakespeare, Milano 2000)
credendosi «in controtendenza»
di questa scelta fa una scienza, e mette al centro della sua lettura
di Shakespeare non il teatro ma la poesia: coi suoi artifici, le sue
figure e insomma la ricchezza infinita del linguaggio, tale da
poter fare a meno di qualunque altra cosa: come le statue greche per
Winckelmann – e per noi – che sarebbe scandaloso
rivedere dipinte come erano in realtà.
Depurare il testo dal
teatro: ci sarebbe altro modo per non perdere le «mele d’oro» di cui è disseminata tutto il
percorso testuale? Anche questo ci sembra infatti ben scritto:
«E’ senza dubbio perverso scoprire che il desiderio di teatro che
arde in tutti i testi shakespeariani è attraversato da una certa
disperazione per il teatro, per il teatro che li seduce e il teatro
che essi seducono; una disperazione impressa nel voyeurismo auditivo
con cui la lingua parlata supera i suoi ascoltatori, disseminando mele
d’oro lungo la strada per distrarre l’avido orecchio che desidera
divorarne il discorso» (Harry Berger jr, Imaginary Audition,
1989).
C’è un meraviglioso frammento di
Nietzsche
in cui leggi qualcosa che un po’ tutti si è provato: il «rapporto
artificioso» e «innaturale» della lettura solitaria e mentale risulta
alla fine il meglio dopo la perplessità, la ripugnanza e
il senso di profanazione che ha lasciato una serata a teatro ad
assistere alla messa in scena del dramma letto e riletto con passione:
«…e ci si sforza di spiegare quest’impressione derivandola dai
difetti della rappresentazione, dall’incomprensione degli attori per
Shakespeare, ecc. Questo tentativo non riesce: giacché, anche sulla
bocca dell’attore più intimamente persuasivo, un pensiero profondo,
un paragone, anzi in fondo ogni parola, risuonano per noi come
indeboliti, intristiti, sconsacrati; noi non crediamo in questo
linguaggio, noi non crediamo in questi uomini, e ciò che in altri
casi ci aveva commossi come una profondissima rivelazione del mondo
diventa ora per noi una disgustosa mascherata. E così ritorniamo
indietro al libro e confessiamo a noi stessi che la comunicazione
innaturale della parola stampata ci sembra più naturale che non la
comunicazione della parlata attraverso un’azione che appare ai
nostri sensi. Ma se tentiamo noi stessi di leggere ad alta voce,
mimando le differenze, ciò che avevamo letto in silenziosa
commozione, diventiamo nuovamente perplessi, poiché il nostro
proprio modo di porgere ci sembra del tutto inadeguato, anzi
indegno…»
(F. Nietzsche, Frammenti postumi. Vol. II: Inverno
1870-1871 – Primavera 1872, Milano 2004).
«Ma se tentiamo noi stessi di leggere ad alta voce» apre una
falla interessante nella morbidosa corazza del lettore in poltrona:
«Tra coloro che parlano
inglese sono pochi quelli che possiedono la capacità di leggere a voce
alta il poeta con la giusta enfasi e musicalità! Nondimeno questa
lettura a voce alta accresce notevolmente l’effetto, poiché la poesia
non è un’arte muta» (A. W: Schlegel, Alcune note su William
Shakespeare, in occasione dell’uscita del Wilhelm Meister, 1796).
Il lettore muto è un lettore dimidiato, un lettore che non può osare
non per troppa platonica sapienza ma per catastrofica incapacità di
incarnazione di sé e del testo nella sua stessa voce. Se crede di aver
trovato l’iperuranio nel suo silenzio di pure idee, come il
Monsieur Teste di Valéry, sta mistificando la
mancanza, dimenticando che «lo scritto è il funerale dell’orale, è la
rimozione dell’interno» (C. Bene, Opere, Milano 2002).
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