"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 13, settembre 2007 

 


 

n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

 

 

57.  Al lettore

 

 


«Si può leggere in silenzio Shakespeare senza udire neppure mentalmente le battute e ricavarne grande emozione; anzi, l’emozione teatrale risulta spesso deludente perché chiunque, o quasi, sia dotato di comprensione del verso inglese può renderlo più efficacemente dell’attore o dell’attrice medi.»

(W. H. Auden. La mano del tintore)

 

 

Ricominciamo da zero. Stai leggendo Shakespeare. E lo fai mentalmente. Leggere senza la voce è una conquista non antichissima dell’umanità; sant’Agostino ammirava ancora nel suo maestro sant’Ambrogio la capacità di farlo come qualcosa di straordinario. Ora leggiamo anche troppo mentalmente. E infatti: torniamo a Shakespeare e a te. Bene, c’è da tempo chi è autorevole, al punto da poter sostenere impunemente che proprio così merita di essere letto Amleto: che il teatro è l’accidente rispetto al quale, grazie a dio, il testo sopravvive sempre.

 

Quindi, viva la lettura mentale e solinga del dramma, che salva il testo minuzioso, altrimenti sprecato dall’attorastro nel casualissimo teatro. Charles Lamb e Henry James pensavano che il Lear fosse un testo così immenso da non potesse essere recitato in nessun caso, che ne andassero «evitate le parodie teatrali» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003).

Perfino Friedrich Schlegel (il traduttore in tedesco di Shakespeare!) e Goethe (l’autore del Wilhelm Meister ma anche dell’irrappresentabile Faust) vedono Amleto come a una tragedia per caso («solo per caso», J. W. Goethe, Shakespeare senza fine, in Scritti sull’arte e la letteratura, Torino 1992) che è meglio leggere che rappresentare, anche se magari in forma di concerto:  ad alta voce.

 

Un critico importante come Kermode (F. Kermode, Il linguaggio di Shakespeare, Milano 2000) credendosi «in controtendenza» di questa scelta fa una scienza, e mette al centro della sua lettura di Shakespeare non il teatro ma la poesia: coi suoi artifici, le sue figure e insomma la ricchezza infinita del linguaggio, tale da poter fare a meno di qualunque altra cosa: come le statue greche per Winckelmann – e per noi – che sarebbe scandaloso rivedere dipinte come erano in realtà.

 

Depurare il testo dal teatro: ci sarebbe altro modo per non perdere le «mele doro» di cui è disseminata tutto il percorso testuale? Anche questo ci sembra infatti ben scritto:  «E’ senza dubbio perverso scoprire che il desiderio di teatro che arde in tutti i testi shakespeariani è attraversato da una certa disperazione per il teatro, per il teatro che li seduce e il teatro che essi seducono; una disperazione impressa nel voyeurismo auditivo con cui la lingua parlata supera i suoi ascoltatori, disseminando mele d’oro lungo la strada per distrarre l’avido orecchio che desidera divorarne il discorso» (Harry Berger jr, Imaginary Audition, 1989).

 

C’è un meraviglioso frammento di Nietzsche in cui leggi qualcosa che un po’ tutti si è provato: il «rapporto artificioso» e «innaturale» della lettura solitaria e mentale risulta alla fine il meglio dopo la perplessità, la ripugnanza e il senso di profanazione che ha lasciato una serata a teatro ad assistere alla messa in scena del dramma letto e riletto con passione:

 

«…e ci si sforza di spiegare quest’impressione derivandola dai difetti della rappresentazione, dall’incomprensione degli attori per Shakespeare, ecc. Questo tentativo non riesce: giacché, anche sulla bocca dell’attore più intimamente persuasivo, un pensiero profondo, un paragone, anzi in fondo ogni parola, risuonano per noi come indeboliti, intristiti, sconsacrati; noi non crediamo in questo linguaggio, noi non crediamo in questi uomini, e ciò che in altri casi ci aveva commossi come una profondissima rivelazione del mondo diventa ora per noi una disgustosa mascherata. E così ritorniamo indietro al libro e confessiamo a noi stessi che la comunicazione innaturale della parola stampata ci sembra più naturale che non la comunicazione della parlata attraverso un’azione che appare ai nostri sensi. Ma se tentiamo noi stessi di leggere ad alta voce, mimando le differenze, ciò che avevamo letto in silenziosa commozione, diventiamo nuovamente perplessi, poiché il nostro proprio modo di porgere ci sembra del tutto inadeguato, anzi indegno…»

(F. Nietzsche, Frammenti postumi. Vol. II: Inverno 1870-1871 – Primavera 1872, Milano 2004).

«Ma se tentiamo noi stessi di leggere ad alta voce» apre una falla interessante nella morbidosa corazza del lettore in poltrona: «Tra coloro che parlano inglese sono pochi quelli che possiedono la capacità di leggere a voce alta il poeta con la giusta enfasi e musicalità! Nondimeno questa lettura a voce alta accresce notevolmente l’effetto, poiché la poesia non è un’arte muta» (A. W: Schlegel, Alcune note su William Shakespeare, in occasione dell’uscita del Wilhelm Meister, 1796). Il lettore muto è un lettore dimidiato, un lettore che non può osare non per troppa platonica sapienza ma per catastrofica incapacità di incarnazione di sé e del testo nella sua stessa voce. Se crede di aver trovato l’iperuranio nel suo silenzio di pure idee, come il Monsieur Teste di Valéry, sta mistificando la mancanza, dimenticando che «lo scritto è il funerale dell’orale, è la rimozione dell’interno» (C. Bene, Opere, Milano 2002).

Su questo argomento, vedi anche Per voce alta


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