Dal 1799 al 1801
A. W. Schlegel (1767-1845)
pubblicò presso l’editore Unger la traduzione in versi
giambici di diciassette drammi di Shakespeare: «lavoro insieme
filologico e creativo, scientifico e poetico, che costituisce non
solo la sua opera fondamentale in Germania, ma la realizzazione più
notevole di tutto il Romanticismo tedesco»
(M. Fazio, Il mito di
Shakespeare e il teatro romantico, Roma 1992).
Potendo «la poesia essere
compresa solo attraverso la poesia» (Lezioni di Letteratura
drammatica, 1808), si
trattò di un’opera
necessaria, non solo per il teatro tedesco ma per l’idea che
Schlegel aveva della critica: come qualcosa che mai dovrebbe
rimanere diviso dalla creazione poetica.
Nel 1796 esce il
Wilhelm Meister di
Goethe:
A. W. Schlegel pubblica, sulla rivista di Schiller, Die
Horen Etwas über William Shakespeare bei Gelegenheit Wilhelm
Meister: non ha lo stile incalzante e vivace di un
Tieck,
è piuttosto un saggio di pacata ma ferma divulgazione, diretto a
dimostrare la necessità di qualcosa che allora nessuno avrebbe
creduto e che avrebbe trovato molti oppositori: la necessità che la
traduzione di Shakespeare fosse in versi.
Shakespeare è un poeta, dunque
pieno di «innumerevoli indescrivibili bellezze non racchiuse nelle
parole» che in prosa svaporano del tutto. Per non perderle del
tutto, «vale la pena di tentare» (A. W: Schlegel, Alcune note
su William Shakespeare, in occasione dell’uscita del Wilhelm Meister,
1796, in: M. Fazio,
Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma 1992).
Shakespeare era già stato tradotto
in prosa da Wieland, e poi con più precisione da
Eschenburg. In queste versioni era stato portato in scena. Tutto
questo perché aveva avuto successo il « pregiudizio di Lessing
contro l’uso della metrica nel dramma», idea che si era radicata e
che aveva convinto anche Schiller e Goethe
(M. Fazio, Il mito di
Shakespeare e il teatro romantico, Roma 1992).
Motivo non meno determinante, gli
attori non possedevano
l’arte della recitazione in versi: «Solo a Weimar
si sapeva recitare in versi. Altrove gli attori erano incapaci.»
(Ibid.).
La conversione alla scrittura
teatrale in versi avvenne all’inizio con Schiller che scrisse
il Wallenstein (1799): nel 1797 Schiller scrive a
Goethe una lettera in cui spiega perché sposa la «nuova
giurisdizione» del ritmo. Goethe si convince a sua volta: «Tutte le
opere drammatiche dovrebbero essere ritmiche e allora si vedrebbe
chiaramente chi è capace e chi no» (J. W: Goethe, Scritti
sull’arte e la letteratura, Torino 1992).
Ancora adesso in Germania
Shakespeare è il ritmo di Schlegel.