Siamo pratici:
«Non ti amavo dice Amleto, e
Ofelia risponde soltanto: Dunque mi sono molto ingannata.
A leggerle, queste parole non sembrano straordinarie, ma
nell’interpretazione di Ellen Terry suonavano come la più alta
espressione possibile del carattere di Ofelia.» (O. Wilde,
“Amleto” al Lyceum, in Autobiografia di un dandy, Milano
1996). Allora non si scappa: «La parola recitata è la cosa
essenziale» (A. Strindberg, Amleto e Faust, Milano 1988).
E l’altissimo poeta Shakespeare «scriveva per il teatro non come
avrebbe scritto un poeta, nel senso in cui si riconoscevano Goethe e i
suoi amici, ma come un attore» (S. Greenblatt, Vita, arte e
passioni di William Shakespeare, capocomico, Torino 2005). Il
fatto che gli attori quasi sempre non siano all’altezza non toglie il
punto. «Molti, lo so, pensano che Shakespeare debba venir letto e
studiato più che rappresentato. E’ un’opinione che io non condivido
neppure per un momento. Shakespeare scriveva drammi per la
rappresentazione, e noi non abbiamo diritto di mutare la forma che ha
scelto egli stesso per esprimere pienamente la sua opera. Molte
bellezze di quest’opera possono in verità venirci rivelate soltanto
attraverso l’arte dell’attore» (O. Wilde, “Enrico IV” a Oxford,
in Autobiografia di un dandy, Milano 1996).
Che è una delle mille perfezioni
imponderabili del teatro. Rispetto al quale il poeta può conoscere il
panico. Quando Alfred de Vigny tradusse finalmente in un francese
degno l’Otello, e fu un grande successo, giunse a queste
probe conclusioni: «Dopo aver toccato, saggiato e ben esaminato con un
preludio di Shakespeare quest’organo dalle cento voci che si chiama
teatro, è bene che io non me ne serva più per far ascoltare le mie
idee. L’arte della scena appartiene troppo all’azione per non turbare
il raccoglimento del poeta» (A. Vigny, Lettre à Lord*** sur la
soirée du 24 octobre 1829, Paris 1830).
Quale comoda castità, a questo
punto, pare promettere «il raccoglimento del poeta», che poi è così
uguale a quello del lettore. Silenzio, eufonie mentali o non più che
rapsodicamente sussurrate, estasi introverse, pace, catarsi... -
Mentre ti ritrovi a precipitare dentro a un altro specchio, quando
provi a leggere a voce alta proprio la pagina che ami tanto: proprio
tu, arduo lettore del logos, così agile nel tuo ascoltare immobile,
t’imbarazzi a non saper trarre granché di buono da quella poesia
di cui, del resto, sei certo. Già solo azzardando la tua voce non più
familiare, puoi finalmente sospettare con imbarazzo che «la sfera
teatrale non è psicologica ma plastica e fisica» (A. Artaud, Il
teatro e il suo doppio): ciò che tu, psicopompo da poltrona,
non sei ancora stato.
Ci prendessi gusto a leggere ad alta
voce, ci prendessi gusto innocentemente, come quando in
macchina ci si sorprende a cantare, potresti avere il coraggio
di notare che il significato della pagina che stai recitando,
significato che credevi ti stesse tanto a cuore, in realtà si stempera
nello stesso esercizio di dire ad alta voce le parole… Intanto
diventa chiaro che, se le tue parole trovassero un loro ritmo, un
timbro, un canto, sarebbero più libere e – cos’altro è la libertà? –
più se stesse. Sarebbero più potenti e meno definibili. Già sospettare
tutto questo sarebbe un salto irrimediabile non banalmente dalla
letteratura al teatro, ma proprio dalla tua letteraria poltrona alla
letteratura vera e propria, che non è mai la platonica comunicazione
di un’idea scorporata da una voce. – Al di qua di questo miracolo
della transustanziazione della parola in suono, restando rintanato
nella sua lettura mentale, senza toni, senza colori, senza silenzî,
senza sbalzi, il lettore resta in fondo un critico: il nome che per sé
scelse Jago.
«Il teatro, che non consiste in
nulla, ma che si serve di tutti i linguaggi – gesti, suoni, parole,
luce, grida – nasce proprio nel momento in cui lo spirito per
manifestarsi ha bisogno di un linguaggio.
Ma il fissarsi del teatro su un tipo
di linguaggio: parole scritte, musica, luci, suoni, segna a breve
scadenza la sua rovina, giacché la scelta di un linguaggio indica una
propensione verso i vantaggi che tale linguaggio offre: e
l’inaridimento del linguaggio va di pari passo con la sua
limitazione.»
(A. Artaud, Op. cit.)