"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 13, settembre 2007 

 


 

n. 13 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 13

 

 

60.  Per voce alta

 

 


Siamo pratici: «Non ti amavo dice Amleto, e Ofelia risponde soltanto: Dunque mi sono molto ingannata. A leggerle, queste parole non sembrano straordinarie, ma nell’interpretazione di Ellen Terry suonavano come la più alta espressione possibile del carattere di Ofelia.» (O. Wilde, “Amleto” al Lyceum, in Autobiografia di un dandy, Milano 1996). Allora non si scappa: «La parola recitata è la cosa essenziale» (A. Strindberg, Amleto e Faust, Milano 1988). E l’altissimo poeta Shakespeare «scriveva per il teatro non come avrebbe scritto un poeta, nel senso in cui si riconoscevano Goethe e i suoi amici, ma come un attore» (S. Greenblatt, Vita, arte e passioni di William Shakespeare, capocomico, Torino 2005). Il fatto che gli attori quasi sempre non siano all’altezza non toglie il punto. «Molti, lo so, pensano che Shakespeare debba venir letto e studiato più che rappresentato. E’ un’opinione che io non condivido neppure per un momento. Shakespeare scriveva drammi per la rappresentazione, e noi non abbiamo diritto di mutare la forma che ha scelto egli stesso per esprimere pienamente la sua opera. Molte bellezze di quest’opera possono in verità venirci rivelate soltanto attraverso l’arte dell’attore» (O. Wilde, “Enrico IV” a Oxford, in Autobiografia di un dandy, Milano 1996).

 

Che è una delle mille perfezioni imponderabili del teatro. Rispetto al quale il poeta può conoscere il panico. Quando Alfred de Vigny tradusse finalmente in un francese degno l’Otello, e fu un grande successo, giunse a queste probe conclusioni: «Dopo aver toccato, saggiato e ben esaminato con un preludio di Shakespeare quest’organo dalle cento voci che si chiama teatro, è bene che io non me ne serva più per far ascoltare le mie idee. L’arte della scena appartiene troppo all’azione per non turbare il raccoglimento del poeta» (A. Vigny, Lettre à Lord*** sur la soirée du 24 octobre 1829, Paris 1830).

 

 

Quale comoda castità, a questo punto, pare promettere  «il raccoglimento del poeta», che poi è così uguale a quello del lettore. Silenzio, eufonie mentali o non più che rapsodicamente sussurrate, estasi introverse, pace, catarsi...  - Mentre ti ritrovi a precipitare dentro a un altro specchio, quando provi a leggere a voce alta proprio la pagina che ami tanto: proprio tu, arduo lettore del logos, così agile nel tuo ascoltare immobile, t’imbarazzi a non saper trarre granché di buono da quella poesia di cui, del resto, sei certo. Già solo azzardando la tua voce non più familiare, puoi finalmente sospettare con imbarazzo che «la sfera teatrale non è psicologica ma plastica e fisica» (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio): ciò che tu, psicopompo da poltrona, non sei ancora stato.

 

Ci prendessi gusto a leggere ad alta voce, ci prendessi gusto innocentemente, come quando in macchina ci si sorprende a cantare, potresti avere il coraggio di notare che il significato della pagina che stai recitando, significato che credevi ti stesse tanto a cuore, in realtà si stempera nello stesso esercizio di dire ad alta voce le parole… Intanto diventa chiaro che, se le tue parole trovassero un loro ritmo, un timbro, un canto, sarebbero più libere e – cos’altro è la libertà? – più se stesse. Sarebbero più potenti e meno definibili. Già sospettare tutto questo sarebbe un salto irrimediabile non banalmente dalla letteratura al teatro, ma proprio dalla tua letteraria poltrona alla letteratura vera e propria, che non è mai la platonica comunicazione di un’idea scorporata da una voce. – Al di qua di questo miracolo della transustanziazione della parola in suono, restando rintanato nella sua lettura mentale, senza toni, senza colori, senza silenzî, senza sbalzi, il lettore resta in fondo un critico: il nome che per sé scelse Jago.

  

«Il teatro, che non consiste in nulla, ma che si serve di tutti i linguaggi – gesti, suoni, parole, luce, grida – nasce proprio nel momento in cui lo spirito per manifestarsi ha bisogno di un linguaggio.

Ma il fissarsi del teatro su un tipo di linguaggio: parole scritte, musica, luci, suoni, segna a breve scadenza la sua rovina, giacché la scelta di un linguaggio indica una propensione verso i vantaggi che tale linguaggio offre: e l’inaridimento del linguaggio va di pari passo con la sua limitazione.»

(A. Artaud, Op. cit.)

 


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