«I copioni, spesso scritti a più
mani, e comunque continuamente modificati dagli interventi degli
attori in base alle condizioni obiettive dello spettacolo e
all’atteggiamento del pubblico, rimanevano di proprietà della
compagnia, che spesso non aveva interesse a pubblicarli nel timore che
compagnie rivali potessero riprendere i suoi spettacoli di maggior
successo. I librai-editori londinesi facevano invece a gara per
assicurarsene la pubblicazione, e se ne garantivano il
copyright facendoli
registrare nell’albo della corporazione dei cartolibrai (Stationers’
Register); ma accadeva di frequente che editori di
pochi scrupoli, anziché ottenere direttamente dalla compagnia i testi
da stampare, se li procurassero per vie traverse, pubblicando testi
messi insieme avventurosamente con l’aiuto di attori infedeli che
mettevano a disposizione le loro singole parti e tentavano, con altri
pennaioli disponibili, di fornire ricostruzioni mnemoniche dei drammi.
Sono queste le cosiddette edizioni piratesche o, nel caso di
Shakespeare,
bad Quartos, cioè ‘cattive’
edizioni nel formato in-quarto – fra cui figurano le prime stampe di
Romeo and Juliet
(1597),
Henry V
(1600), The Merry Wives
of Windsor (1602) e
Hamlet
(1603).
Del resto, anche quando era la
compagnia stessa a fornire il testo all’editore, non si trattava quasi
mai del prezioso copione in uso per la rappresentazione; il testo
stampato era la riproduzione, con varianti più o meno arbitrarie, o di
prime stesure manoscritte (foul
papers) dall’autore, piene di correzioni e riscritture,
scartate dalla compagnia dopo che da esse era stato ricavato il
copione (prompt-book)
da usare nelle prove; oppure di una bella copia ad opera di un
amanuense professionista preparata per compiacere qualche intenditore
di teatro.
Paradossalmente, la nuova
immagine di Shakespeare non
più come poeta o addirittura come bardo nazionale, ma come mestierante
di teatro, si fonda non tanto sulle scoperte delle recenti metodologie
della critica letteraria (…), quanto sul più arido e rigorosamente
scientifico metodo di avvicinare la sua opera: la critica testuale.
Infatti (…) non c’è da meravigliarsi che, della quarantina di drammi
che egli scrisse o alla cui stesura collaborò, soltanto quattordici
apparvero a stampa durante la sua vita – dapprima senza neppure il suo
nome sul frontespizio, e sempre in forme molto approssimative e
casuali. La maggior parte furono pubblicati sette anni dopo la sua
morte da due attori della compagnia; ma la loro affermazione, nella
prefazione del famoso volume in-folio del
1623, secondo cui i testi erano
presentati «così come egli li aveva concepiti», è risultata non più
che velleitaria. Anche in tal caso si tratta di drammi giunti in
tipografia nelle tante maniere avventurose che si sono indicate più
sopra.
Insomma, i cosiddetti
«testi» dei drammi shakespeariani stampati nel tardo Cinquecento e nel
Seicento non sono testi letterari, ossia opere pubblicate in una
forma che vuol essere definitiva e permanente, ma semplici documenti
teatrali sopravvissuti casualmente alla distruzione cui erano
destinati.»
(G. Melchiori,
Shakespeare, Roma-Bari, 2005)
Su questo, vedi anche
Testi avventurosi