"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 12  settembre 2007

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 9. Simmetrie

 

 

 

 


 

«…tutta una serie di parallelismi a contrasto nell’esplorazione dei rapporti interpersonali e di consanguineità: Amleto/spettro paterno, Amleto/Gertrude, Amleto/Claudio da una parte, Polonio/Ofelia, Polonio/Laerte, Ofelia/Laerte dall’altra; e poi,forse il più sfuggente di tutti, il rapporto Amleto/Ofelia, tramite fra i due gruppi.»

(G. Melchiori, Shakespeare, Roma-Bari, 2005)

 

 

Si potrebbe leggere e rileggere Amleto solo per divertirsi a cercare le simmetrie che legano trame e personaggi in giochi di specchî stupefacenti per inesorabile musicalità: come una cellula di Bach o di Beethoven, ci sono pochi banali motivi (la vendetta!) che si moltiplicano in variazioni, ritorni, echi e inversioni.

Per esempio, alla scena di Amleto che non uccide Claudio perché sta pregando (Atto III, sc. 3), fa eco Laerte che, sempre da Claudio ormai incanaglito dalla paura, si sente chiedere: « Veniamo / al vivo dell’ulcera: Amleto è qui. Che sei pronto a fare / per mostrarti, nei fatti più che nelle parole, / figlio di tuo padre?» - Lo sventurato risponde: « A tagliargli la gola in chiesa» (Atto IV, sc. 7).  Tutto in un fiato di parole: questo scambio di battute vale come riassunto antifrastico di tutto quanto Amleto ha vissuto finora: il paterno re Claudio fa all’orfano Laerte la stessa domanda dello Spettro ad Amleto, e la risposta di Laerte è proprio quanto Amleto non ha fatto con Claudio.

 

Né finisce qui: perché Claudio incalza Laerte perché la rabbia è una marea che passa: «Vive entro la fiamma stessa dell’amore una sorta di stoppino o lucignolo che la fa scemare; e non v’è cosa che sia sempre della stessa bontà, perché la bontà, divenendo pletorica, muore del suo proprio eccesso; quel che vorremmo fare dovremmo farlo quando vorremmo; perché questo «vorremmo» muta, e ha tante diminuzioni e indugi quante son lingue, mani, accidenti; e allora questo “dovremmo” è come un prodigo sospiro che dando sollievo fa male» (Ibid.). – Ancora una volta, dunque, da Claudio vengono parole amletiche: l’ennesima variazione sul tema della volontà che perde la punta, come rimproverò lo Spettro ad Amleto, come Amleto si rimprovera sempre. Sarai o non sarai capace di quello che dici, chiede allora il re al giovane, ed è la domanda che crediamo di riconoscere di più.

 

 

 

Come una spirale, il dramma fa sempre gli stessi giri, e fa compiere la sua giostra a tutti i personaggi. Nessuno si salva. Aveva già detto l’attore Re nella pantomima (sono versi aggiunti da Amleto?): «Il proposito non è che lo schiavo della memoria, di violenta nascita, ma di scarsa vitalità (…) ciò che a noi stessi nella passione proponiamo, col finire della passione perde il suo proposito” (Atto III, sc. 2): quanto, appunto, Claudio dice a Laerte ripetendo l’essere o non essere e il cuore di tutti i soliloquî del principe. Il re, dando per scontato che così non può che essere, che ogni volontà è destinata a sfarinarsi nel tempo, aggiunge solo l’ovvia richiesta che Laerte faccia presto (ancora un anticipo di Macbeth): di ucciderlo fin quando è ancora invasato dall’odio e dal dolore.

 

Altri specchî, altre simmetrie.

Alla «trappola per topi» di Amleto (svelare il delitto del re mostrandoglielo all’improvviso in una recita), s’incrociano «le trappoliere» di Claudio: prima con Polonio; poi, ucciso, lui, con Rosencrantz e Guildenstern che facciano da guide in Inghilterra al figliastro, infine con Laerte.

Nel caso del trucco di Polonio di usare Ofelia come esca per catturare la vera coscienza del principe (dice il Re: «Il padre di lei, ed io stesso, legittime spie, ci collocheremo così che, vedendo non veduti, possiamo liberamente giudicare del loro incontro…», Atto III, sc. 1), corrisponde una simmetria con la «trappola per topi» di Amleto nella sua stessa meccanica, e perfino nella sua epistemologia: sia Amleto che i suoi nemici credono infatti che il vedere non veduti permetta di ricavare dalla fisiognomica e dalle azioni dello spiato, dai suoi toni e silenzi, la verità; mentre entrambi i trucchi non porteranno alla fine che a un eccesso inestricabile di sospetti, ai quali credere o non credere resta un enigma. Shakespeare porta qui il gioco delle simmetrie fin nei particolari della messinscena: Ofelia deve far mostra di leggere un libro (per, le dice il padre, «dar colore alla vostra solitudine», Ibid.), tal quale Amleto che nell’atto precedente incontra Polonio quando era solo che leggeva parole parole parole.

 

 

Il fallimento di tutte le trappole rende facile presagire come andrà l’ultima, la più grossolana e catastrofica. Amleto intanto capisce quasi sempre tutto (o forse proprio tutto) e, raccontandolo alla madre nella closet scene, a proposito del Re che lo manda in Inghilterra, pare un sarcastico Beep-Beep che parli di Will Coyote: «Lasciate fare; perché è uno spasso vedere l’ingegnere andare in aria per il suo proprio petardo; e sarà proprio una disdetta se io non scaverò d’un metro sotto alle loro mine, e li farò saltare fino alla luna; oh, è cosa assai dolce, quando due trame direttamente s’incontrano su una stessa linea» (Atto III, sc.4).

Come sempre, come tutti, Amleto non sa fino in fondo ciò che dice, e come il sarcasmo per Claudio possa essere rivolto non di meno alle trappole sue per incastrare il re. E anche questo era stato appena detto nella recita dall’attore Re: «i nostri calcoli sono sempre rovesciati: / nostri sono i progetti, ma non i risultati» (Atto III, sc. 2): i versi in cui Kierkegaard sentiva riassunta tutta la sua filosofia.

 

Si sa che Amleto più avanti, vedi caso quando sta andando a morire, deduce dal fallimento di tutti i disegni umani l’esistenza di una «speciale provvidenza»: se ciò che si realizza non sono mai progetti umani, saranno disegni di qualcosa più forte di me (e dunque «sia!»). Anche se ha studiato all’università, è in questo meno rigoroso di Macbeth, che sa pensare che tutto quanto accade può non essere nei disegni di nessuno (lui che è stato preso al laccio dalle streghe!).

Amleto infatti dice: «E sia lodata l’avventatezza quando val meglio dei piani meditati e ci mostra l’esistenza di un Dio che dà forma ai nostri propositi qualunque sia il profilo che ne sbozziamo noi» (Atto V, sc. 2): tale e quale a quanto penserà il postumo amletico-cristiano Manzoni: gli stessi Promessi sposi potrebbero essere letti bene come l’opera che porta alla massima perfezione possibile questa dimostrazione dell’esistenza di Dio per esclusione di ogni altra: data l’impossibile esistenza di qualunque vera volontà umana, non può esserci che Lui: un “eppur si muove – ma non l’ho mosso io!”…

 

Ma ora ci interessa far notare un’altra simmetria: il celebre discorsetto a Orazio sul passero dalla provvida caduta (Ibid.) echeggia un’analoga arringhetta a Rosencrantz e Guildenstern in cui, ripercorrendo la carriera dello zio da nessuno a re, Amleto dice: «Perdìo, c’è come un progetto soprannaturale in questo, se solo la filosofia sapesse scoprirlo» (Atto II, sc. 2), che a sua volta rimanda all’altra battuta celebre del cielo e della terra più piene di cose della filosofia di Orazio (Atto I, sc. 5).

 

 

 

Un altro intrico di specularità lega tra loro tutti i giovani, i quali si muovono in una rete di circostanze imposte, ma mai risolte, dai vecchi. Perfino Fortebraccio, vendicatore come Amleto non può essere, pensa come il principe che qualcosa sia «fuor di sesto» in Danimarca («ci stima ben poco o ritiene che per la morte del nostro caro fratello lo stato sia scardinato e sconvolto», Atto I, sc. 2); e poi le simmetrie tra i due orfani Laerte e Amleto, due giovani centrifughi che desideravano di non vivere in Danimarca, e – ancora più sottili – tra Amleto e Ofelia, ridotti a macchine obbedienti per i disegni dei papà, tutt’e due pazzi, ma forse di pazzie dalle diagnosi sorprendentemente invertite: perché Claudio dà per certo che Ofelia si sia persa «per la morte di suo padre» (Atto IV, sc. 5) e non per essere stata ripudiata e maltrattata da Amleto, mentre Amleto sarebbe impazzito- secondo Polonio che quasi convince Claudio ma non la regina – per essersi visto negare l’amore di Ofelia. Però è Ofelia che nella pazzia diventa oscena.

Sempre sulla pazzia di Amleto: all’inizio, Orazio avverte il principe che a seguire lo Spettro fino «all’orrida sommità della roccia che s’aggrotta sulla sua base entro il mare» potrebbe vedersi rapire la ragione: «pensateci: il luogo stesso mette estri di disperazione, senz’alcun altro motivo, in ogni cervello che guardi da tante braccia nel mare e l’oda ruggire di sotto» (Atto I, sc. 4). – E cosa dirà della follia di Amleto dopo che ha ucciso Polonio? Che è «Pazzo come il mare e il vento, quando l’uno e l’altro contendono quale sia più possente» (Atto IV, sc. 1).

 

AMLETO - Conosci questa libellula?

ORAZIO - No monsignore.

AMLETO - Ci guadagni in stato di grazia, perché conoscerlo è un vizio.

(Atto V, sc. 2)

 

 

Morto un Polonio, subito se ne abbozza un altro, ma la classe non è acqua ce n’è di strada da fare.  Che il piccolo Osric sia un goffo apprendista lo dice il linguaggio affettato e meccanico: «…Invero, per parlar di lui col cuore, egli è il mappamondo e il calendario della cortesia, dacché troverete in lui il continente di tutte quelle regioni che un gentiluomo vorrebbe ben vedere» (Ibid.) è una frase che avrebbe potuto dire Polonio, ma senza perdercisi. Polonio era fin troppo padrone delle sue ampollose ipotassi; Osric è un ragazzino schiavo di formule imparaticce e sempre peggio balbettate («ORAZIO - La borsa è già vuota, ha speso tutte le sue parole d'oro», Ibid.). Amleto ripete con lui lo sketch del principe col cortigiano che acconsente a ogni sua stupidaggine: Polonio – ma forse anche per la prudenza con cui si ascolta un pazzo - riconosceva prontamente tutti gli animali che Amleto vedeva in una nuvola (Atto III, sc. 2); con Osric Amleto prima dice che fa freddo e poi caldo (Atto V, sc. 2), ma solo per fargli mettere il cappello in testa davanti al figlio del Re.

 


 

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