"Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 

 


 

n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

 

 

7.  Largo al factotum

 

 


HAMLET - What should a man do

but be merry? (Act III, sc. 1)

 

HAMLET - ...then what I have to do

Will want true colour; tears perchance for blood. (Act III, sc. 3)

 

CLAUDIUS - ...that we would do

We should do when we would...

(Act. IV, sc. 7)

 

LAERTES - I will do't

(Act. IV, sc. 7)

 

HAMLET -  'Swounds, show me what thou'lt do: / Woo't weep? woo't fight? woo't fast? woo't tear thyself? / Woo't drink up eisel? eat a crocodile? / I'll do't.

(Atto V, sc. 1)

 

 

«Nel mondo shakespeariano c’è una contraddizione tra l’ordine dell’azione e l’ordine morale. Questa contraddizione è il destino umano. Uscirne è impossibile» (J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006). A meno che ci si droghi. - Jung racconta della cerimonia atniga degli Arunta: «Essa consiste in questo. I membri della tribù prescelti per una spedizione vendicativa devono essere prima fatti arrabbiare. (…) L’intelletto moderno crede di poter conseguire questo risultato con una pura e semplice decisione della volontà, e quindi di poter fare a meno di tutte le cerimonie magiche» (C. G. Jung, Energia psichica, 1928). Se si vuole agire, bisogna saper drogare magicamente la volontà. «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Matteo 26:41)  è già uno stato di coscienza eccessivo in quasi ogni istante della vita: la costanza di uno spirito debole è più plausibile.

 

 

 

Cosa si deve fare non lo sa nessuno. Si va avanti per improvvisazioni più o meno ponderate. - Chi lo sa sbaglia più degli altri («La volontà è persuasione di dominare il mondo; ossia è errore», E. Severino, La filosofia futura, Milano 2006). Che fare è la domanda di chi riconosce il Cristo («E la folla lo interrogava, dicendo: Allora, che dobbiamo fare?», (Luca, 3:10, 3:12, 3:14, 3:18, 10:25, 18:18; Matteo 19:16; Marco 10:17; Giovanni 6:28) e di chi come Saulo ne viene fulminato (Atti degli Apostoli, 9, 6). – Risposte tutte impossibili, che valgono, se valgono, solo qui e ora: poi non più. Questo  è il tragicomico inevitabile: «La vera coscienza del tragico, attraverso la quale il tragico stesso diviene realtà, non riguarda solo la fugacità e la transitorietà dell’essere. Perché tutto ciò diventi tragico, occorre che l’uomo cominci ad agire. Con l’azione l’uomo provoca prima il nodo tragico e poi, per inevitabile necessità, la catastrofe» (K. Jaspers, Sul tragico, Milano 2000). Conclusione: «L’energia vitale nasce dalla cecità»  (Ibid.).  

Uguale concetto in Raymond Aron: «Gli uomini fanno la storia, ma non sanno la storia che fanno», che guarda caso era già un pensiero dello psuedo-amletico Wilhelm Meister: «l’eroe non ha un piano, mentre la tragedia lo ha» (J. W. Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, Milano 2006).

Non è dunque che solo adesso «la facoltà di agire è malata» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002).

 

La question pian piano si sta svelando: non è tanto, come leggevano i romantici (Coleridge, Goethe…) la mancanza di soggettiva volontà di fare la cosa giusta, quanto l’impossibilità ontologica della stessa: «Amleto non manca di volontà, così come Otello non è geloso» (P. A. Florenskij, Amleto, Milano 2004). La tragedia è tale proprio perché non dipende dalla volontà di nessuno, perché « ogni agire effettivo è necessariamente “senza coscienza”» (M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1955):

 

«Le azioni che io feci

Io le ho patite più che compiute…

Nulla di tutto questo io volli!...»

(Sofocle, Edipo Re)

 

Anche Raskolnikov finisce col dar la colpa al diavolo (F. M. Dostoevskij, Delitto e Castigo), e Amleto dalla follia falso-vera, dirà fraternamente questo a Laerte prima che s’infilzino a vicenda: «È stato Amleto a far torto a Laerte? Non è stato Amleto. Se Amleto è tolto a se stesso, e mentre non è se stesso fa torto a Laerte, allora non è Amleto a far torto, Amleto lo nega. Chi è dunque a farlo? La sua pazzia» (Atto V, sc. 2). Eppure c’è sempre una firma dello stolido io. Ogni atto è auto-ritr-atto: e non solo perché «schiavo del limite» (Troilo e Cressida, Atto III, sc. 2) ma soprattutto perché «come l’uomo è, così egli è obbligato ad agire» (A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena): secondo «la natura sua», diceva drastico il Machiavelli del Principe.


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