Amleto, per il già di suo
peritosissimo Coleridge, è la prova di un’esitazione dovuta a una «great,
an almost enormous, intellectual activity, and a proportionate
aversion to real action consequent upon it» (S. T. Coleridge,
Hamlet, 1819).
A. C. Bradley
si oppose, suggerendo ironicamente che questa interpretazione
avrebbe potuto essere frutto di una proiezione della nevrosi dello
stesso Coleridge, «for it is downright impossible that the man we
see rushing after the Ghost, killing Polonius, dealing with the
King’s commission on the ship, boarding the pirate, leaping into the
grave, executing his final vengeance, could ever have been
shrinking or slow in an emergency.
Imagine Coleridge doing any of
these things!» (A. C. Bradley, Shakespearean Tragedy,
1904).
Potrebbe essere benissimo così, ma
cosa farsene della propria biografia se non la porta per accedere a
qualcosa di più essenziale? Il punto infatti
è
che Coleridge è il primo a sentire
l’esigenza di una svolta per un «philosophical criticism».
E infatti: «I
believe the character of Hamlet may be traced to Shakspere's deep
and accurate science in mental philosophy».
Come si sa, questo della «philosophy»
è uno degli spartiacque essenziale che hanno diviso le infinite
letture di Amleto in due, e tendenzialmente le letture
anglosassoni non hanno scelto la parte di Coleridge.
Coleridge disegna un Amleto molto
simile a come lo ritroveremo nella celebre recensione di
Gadda: il giovane principe, reso «in exhaustion
and inanity» dall’incontro con lo Spettro, è ipersensibile come un
espressionista; percepisce coi sensi e con la mente «a form and a
colour not naturally their own»; «his senses are in a state of
trance, and he looks upon external things as hieroglyphics».
Da qui il suo
infinito parlare: «Hamlet opens his mouth with a playing on words,
the complete absence of which throughout characterizes Macbeth».
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