«La politica è
anche nelle sue forme più schematiche parte del mondo interiore
dell’uomo, e di infinite interiorità in reciproco rapporto.»
(G.
Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine
politiche del ‘600 italiano, Macerata 1999)
«Il tema della Policy,
con la P maiuscola, percorre tutti i drammi scritti da Shakespeare
da Henry V in poi. Egli sembra affascinato
dalla sua ambiguità: policy di per se stessa è male – è
l’arte di Iago -, astuzia, inganno, un «parto mostruoso» (secondo le
parole di Iago) «portato alla luce del mondo dall’inferno e dalla
notte». Però la mancanza di policy è una deficienza fatale, o
perfino criminale, in un leader. E’ la amartìa, il «tragic
flaw», di Amleto, di Otello, di Lear, che evadono dalle loro
responsabilità pubbliche, o permettono che siano sopraffatte da
passioni private» (G. Melchiori,
Shakespeare, Roma-Bari, 2005).
Girard non ci
tiene a cogliere tutte queste ambiguità e taglia di netto il non
scioglibile nodo: «“Peste
a tutt’e due le famiglie” (Romeo e Giulietta, III, 1, 91)
è a mio avviso la formula shakespeariana per eccellenza in materia
di politica.» (R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia,
Milano 2002)
Forse non
Shakespeare, certo in molti ai tempi la pensavano così. Malgrado
Platone e Aristotele, in Inghilterra le parole policie
e politic nascono infatti all’inizio del XV secolo
promettendo niente di buono per gli onesti: dicono raggiro,
espediente, astuzia, inganno. Presto, con gli elisabettiani,
sinonimo di politic sarà Machiavellian:
«La leggenda nera di Machiavelli sorse in Italia all’epoca di
Caterina de’ Medici, quasi a coronamento dell’italofobia
provocata dal governo della sovrana fiorentina« e i favori goduti e
i soprusi commessi dagli avventurieri italiani furono «le cause
principali, se non le uniche, dell’inaudito obbrobrio di cui si
circondò il nome del politico fiorentino» (M. Praz,
Machiavelli e gl’Inglesi dell’epoca elisabettiana, in:
Bellezza e bizzarria, Milano 2003).
I più dicono
Machiavelli con la pertinenza sufficiente a una superstizione:
«Nell’uso volgare della parola, machiavellismo suggerisce
specialmente due cose: un modo proditorio di uccidere, generalmente
col veleno; e ateismo» (Ibid.), a riprova, aggiunge
Auden, di «un tratto provinciale» che, «ancora una volta con
l’eccezione di Shakespeare, che con ben altra consapevolezza crea
personaggi come Iago e Iachimo», caratterizza tutta la stagione
elisabettiana svelandone una volta di più «l’impronta
dell’improvvisazione» (W. H. Auden, Lezioni su Shakespeare).
«Machiavelli»,
«fiorentino» e «italiano» in Shakespeare vengono comunque
usati nei loro dispregiativi significati comuni: «Alençon, quel
famigerato Machiavelli!» (Enrico VI, Parte I, Atto V, sc.
4); «so aggiungere
colori al camaleonte e cambiar forma come Proteo, se ciò giova, e
dar lezioni a quell’assassino di Machiavelli» (Enrico VI,
Parte III, III, 2); «Quale perfido Italiano dalla lingua
avvelenata come la mano, ha prevalso sulla tua troppo facile
credulità?» (Cimbelino, Atto III, sc. 3). Se
avanza almeno un fiorentino degno di merito agli occhi di qualcuno,
questi sarà Iago per l’incauto Cassio («non
ho mai conosciuto un fiorentino più gentile e galantuomo», Otello,
Atto II, sc. 1).
Fuori dalla pazza
folla, Bacone conosceva e apprezzava Machiavelli
«Noi dobbiamo essere grati a
Machiavelli e agli scrittori come lui, che scrivono ciò che gli
uomini fanno, e non ciò che dovrebbero fare» (F. Bacone,
Advancement of Learning).
Marlowe lo aveva studiato a Cambridge. Marlowe è con Kyd
l’artefice della trasformazione
del furfante della tragedia senechiana nel più sottile e perfido
filatrame italiano.
Delle letture di
Shakespeare, tanto per cambiare invece non si sa, e probabilmente
non gli era necessaria una conoscenza nemmeno superficiale del
Principe per far dire ad Amleto una delle frasi più
icasticamente machiavelliane che si possano concepire: «Io debbo
esser crudele, solo per esser buono; così il male comincia, e il
peggio resta indietro» (Atto III, sc. 4).