«Nel mondo
shakespeariano c’è una contraddizione tra l’ordine dell’azione e
l’ordine morale. Questa contraddizione è il destino umano. Uscirne è
impossibile.»
(J. Kott,
Shakespeare nostro contemporaneo, Milano 2006)
«Persistesse il
folle nella sua follia, sarebbe saggio.» (W. Blake)
«Ci si può rompere soltanto se si è
già a pezzi» (voce di Joan, in R. D. Laing, L’io diviso,
Torino 1969): vero! Le cattiverie della vita lavorano su una
faglia già presente da sempre, e come il piatto ancora integro ma già
traversato dalle crepe, già si vedono i frammenti in cui si esploderà.
Non esiste un prima della divisione; è piuttosto l’io integro la
finzione che serve a un certo grado di minimale ben-essere
psicologico. «Ma l’uomo l’uomo che non teme la profondità dell’abisso
(Ab-grund) e che non si difende con terreni solidi e sicuri (Grund),
può accedere alla schizofrenia perché è dell’uomo abitare la
dimensione frantumata dell’essere che, inaccessibile nella sua
originaria unità, si concede all’uomo solo come lacerazione (Zerrisenheit).»
(U. Galimberti, Prefazione a K. Jaspers, Genio e follia,
Milano 2001). Lacerarsi, impazzire, è abbandonarsi a una deriva
che era già nel cuore a tentare da sempre, a una latenza che cova e ci
accompagna come l’ombra necessaria: «Io mi prendo il male che studio e
lo covo in me. Non trovo strano che l’immaginazione dia le febbri e la
morte a coloro che la lasciano fare e che se ne compiacciono. (…)
Gallo Vibio guidò così bene la sua anima a comprendere l’essenza e
le variazioni della follia, che la sua mente andò fuori di posto, e
mai egli ve la poté ricondurre; ed egli poteva vantarsi di esser
diventato pazzo per saggezza.» (M. de Montaigne, Saggi, vol.
I, Milano1986), caso di cui Shakespeare dà analoghi in ossimori
anche non amletici ma leggeri: «La follia, germinata dalla saggezza,
ha tutta la garanzia della saggezza, l’aiuto dell’istruzione e la
grazia stessa dello spirito per aggraziare un dotto fatuo» (Pene
d’amor perdute, Atto V, sc. 2); «Ecco un pazzo pieno di senso»
(A piacer vostro, Atto II, sc. 3); «Va’, sei un pazzo
intelligente: ti ho scovato» (Tutto è bene quel che finisce bene,
Atto II, sc. 4).
Nella lacerazione, oltre la
debolezza e lo spaesamento angoscioso, una pace più ardua, che ci
somiglia di più: «La nostra forza è la scissione, abbiamo perduto
l’ingenuità» (K. Jaspers, Genio e follia). Strada con
morti e feriti, molti dei quali amletici: «La sua forza di
volontà funzionava a strattoni e quindi fanaticamente; in realtà, non
desiderava nulla; era fatalista, credeva nella sfortuna; di
temperamento sanguigno, sperava tutto. (…) E’ consapevole di questa
“ambivalenza” del suo carattere, comune del resto a tutti gli uomini
per la contraddittorietà di tutto il pensabile. Ma essa appare con
maggior violenza quando non incontra davanti a sé che un debole potere
di sintesi, una debole capacità di realizzare una forma armonica di
esistenza, quando si cede troppo presto agli impulsi e le
contraddizioni vengono vissute senza riserve, nel pensiero e nei
gesti, senza che intervenga la consapevolezza del compito di
coordinarle verso una meta» (K. Jaspers, Genio e follia, su
A. Strindberg).
Il punto sarà proprio questo
compito di darsi una soluzione? Ma il compito di per sé è
solo un passo, per lo più donchisciottesco e a casaccio, della
volontà di soluzione – di una soluzione pur che sia. Mentre magari
compito e soluzione semplicemente non sono la stessa cosa, e il
proprio compito è agire ma senza soluzioni: presi nella fresca
aria di cristallo di una costante attenzione - «però non bisogna
dimenticare che un vaso rotto rimane un vaso rotto.» (V. van Gogh,
ottobre 1889), e l’uomo è un vaso rotto.