Cosa
Leopardi non ha capito dei Greci?
“Felicità
non
è altro che contentezza del proprio essere
e
del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto
del
proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia,
e
fosse pur anco il più spregevole.” (Zib.
4191)
“...che
cosa Leopardi non coglie dei Greci? La capacità ch’essi ebbero
di tenere misura a
fronte dello smisurato. Quest’atteggiamento non è di
onnipotenza; al contrario è un modo per valorizzare il
contingente, per dominare il caso. Molto spesso si squalifica la
sapienza perché da essa si pretende troppo: la si vuole
infallibile. E se non è tale è vana. Al contrario, sapiente
davvero è chi regge nella precarietà senza pretendere
l’assoluto. Questo modo d’essere conquista il tempo, resta
aperto al futuro. Al futuro prossimo, potremmo dire, del giorno
dopo. Su questo Nietzsche - direi un certo
Nietzsche - ha visto più giusto. In molte circostanze Leopardi
rivela rispetto a Nietzsche una superiore grandezza.
In primo luogo non ha enfasi: è attento all’ogni giorno
degli uomini, alla prosaicità della vita, al dolore, alla fatica
dei piccoli - come tutti effettivamente siamo. Leopardi è
antieroico. Non fugge per la tangente: per questo, alla fine, è
capace di pietà. Al contrario, Nietzsche in taluni casi mostra
una sfacciata spietatezza: è vanagloria, non disincanto.
Leopardi, invece, è assolutamente realista. Non può essere -
come lo è Nietzsche - erede e per molti versi ancora subalterno
all’io idealista. Eppure, circa la possibilità di darsi uno
scopo, Nietzsche vede più giusto. Bisogna essere fedeli al
presente anche se trapassa. Di quel che esiste nulla è vano: la fine non impedisce il fine,
la morte non può mai costituirsi come un’obiezione contro la
vita. I Greci l’avevano capito” (S. NATOLI, in A. PRETE, S. NATOLI, Dialogo
su Leopardi).
Forse
Natoli a sua volta forza. Già solo nelle Operette,
c’è Plotino, l’Ottonieri, Amelio... lo stesso Islandese è
posto dall’autore in un marchingegno narrativo fatto
perfettamente a posta per il suo dileggio, per lo sberleffo alle
sue domande “smisurate”: si può forse negare che la doppia
morte dell’Islandese sia comica?
Se
Natoli scrive che un errore essenziale di Leopardi (o del giovane
Leopardi?) è proprio la vocazione all’infinito, perché “la
nostra possibilità di godere non è infinita: l’infinito è una
svista della vita immediata” (Ib.),
Leopardi aveva già pensato e ripensato che “l’uomo ha perduto
la perfezione volendosi perfezionare” (vedi l’operetta che
inaugura il libro, la Storia
del genere umano). E uno dei centri di Leopardi è
provarsi a capire perché.
Provando
a dire lo stesso ma con un altro giro: l’errore della “troppa
cura” - come lo chiamerà Giorgio Caproni in una lettera - è
anche nel Pastore che
fa smisurate domande alla luna, o il fatto che quelle domande
siano cantate
ne fa qualcosa di ironico e
sublime, di vertiginosamente misurato?
Non
è sempre un errore, leggendo una poesia come una prosa, farsi
troppo sviare dal contenuto?
(Su
Nietzsche, vedi anche la prima costellazione sul Papageno
del Flauto Magico di Mozart e la dodicesima)