“Nel
mezzo della vita, nella sua oscura selva,
l’uomo
si volge indietro – come fosse un fuggiasco,
un
criminale -, per un ramo che scricchiola, per uno scroscio
d’acqua.
(da
I. BRODSKIJ, “Kellomäki”, in Poesie)
Vinegia
– o anche solo “Rialto” -,
come si sa, era città già perfettamente rapace e mirabile quando
Dante veniva al mondo: “Pavimentum eius est mare, coelum est
tectum” (Boncompagno da Signa, 1240)!
Venezia
è “alter mundus”, scriveva Petrarca, anticipando quel
riconoscimento della sua natura paradisiaca che torna costante in
tutto Fondamenta!…-
All’opposto, ci sarà per veleno
d’invidia tutto il lungo controcanto di calunnie dei fiorentini
di Firenze: da Boccaccio (benché ospite fisso proprio del
venezianissimo Petrarca! Casa a palazzo Molin sulla Riva degli
Schiavoni, giusto tra san Marco e quell’Arsenale che darà a Dante
uno dei suoi supremi quadri d’Inferno) a Villani a Sacchetti, e
così su su fino al Cinquecento dei Medici…
Dante,
se non veneziano, certo fu a lungo dei paraggi, avendo avuto nel
“Veneto” (termine, malgrado politicanti teratologici,
terribilmente moderno!) la sua patria seconda di esule curioso ed
errante:
“La
tradizione insiste molto su questi ricordi, dalla ruina
dell'Adige all'arzanà
dei Veneziani e al castello di
Tiralli, dalle dighe dei Padovani lungo
la Brenta al
Bacchiglione, al Piave, al drappo
verde di
Verona, al padoano
nel gruppo degli usurai (Reginaldo degli Scrovegni, accanto ad un
futuro dannato padovano, Vitaliano del Dente), ecc. Il lettore del
De vulgari eloquentia
valuta la notevole esperienza che Dante possiede dei dialetti
veneti: le sincopi deformanti dei participi dei Padovani, la
citazione onorifica di Aldobrandino de' Mezzabati, il ricordo d'un
canto veneziano, "Per le plaghe de Dio tu no verras", i
crudi accenti degli abitanti di Aquileia e dell'Istria; al limite
delle cose non "viste" ma sentite dire: i sepolcri di
Pola, il Carnaro, ecc. Un commentatore rigoroso qual fu Benvenuto da
Imola segnala la circostanza dell'incontro con Giotto a Padova, dove
si vuol che il poeta ammirasse la cappella degli Scrovegni (dunque
tra il 1304-1305)”.
(G.
PETROCCHI, Vita di Dante).
I
rari quadri - tanto che c’è chi ha scritto di Venezia “grande
assente” (G. Fasoli) dell’enciclopedica Comedìa!
- di Venezia e dintorni che ci ha lasciato Dante compongono non più
di un affresco lacerato sul muro. In ogni caso già sorprendendo con
il doppio indizio di una città più di fuoco che d’acqua: vedi,
celeberrimo, il ribollire clamoroso dell’Arsenale (Inferno,
XXI 7-18) e la visione entrata nella carne fino all’isteria
del fuoco d’una fornace di Murano (Purgatorio,
XXVII, 49-50). -
Appena fuori da queste fiamme laboriose, sperso tra il
contorno di acquitrini e isolotti della laguna, l’omicidio
dolentissimo di Iacopo del Cassero (Purgatorio,
V, 73-85).
Né
va naturalmente dimenticato che Dante per Venezia morì: “essendo tornato d’ambasceria da
Vinegia in servizio de’ Signori da Polenta, con cui dimorava” (G.
Villani, IX, 36), prese la malaria che nel 1321 lo uccise:
come Brodskij, a cinquantasei anni.
(Questo
Dante veneziano è in realtà fantasma in Fondamenta
del tutto assente; per l’altro, quasi una filigrana di tante
pagine essenziali del Russo, vedi, per esempio, le voci esilio,
impersonale, Kontesto:
dove, anche se non citato, esplicitamente, Dante c’è).