Lingua
russa: "carne sonora e parlante"
(O.
MANDEL'STAM)
Non
mi farò illudere nemmeno dalla lingua
natia,
dal suo latteo appello.
Per
me è indifferente in quale lingua
non
essere capita dal primo incontrato!
(M.
CVETAEVA)
“Per
uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima
di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si
ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era, per così dire, la
sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula. Quella che all’inizio
era una liason
privata, intima, col linguaggio, in esilio diventa destino – prima
ancora di diventare un’ossessione o un dovere. Una lingua viva ha, per
definizione, una propensione – e una propulsione – centrifuga; cerca
di abbracciare quanto più terreno è possibile – e quanto più vuoto
è possibile. Da qui l’esplosione demografica, e da qui il tuo
autonomo viaggio verso l’esterno, in quello che è il regno del
telescopio o di una preghiera” (Profilo di
Clio).
Perdita
delle Madri e del paesaggio, la
passione dell'esilio
attraversa il corpo della vita come una ferita immedicabile: “il
qui troppo qui, il là troppo là”
(Marina Cvetaeva); né resta una
scelta (“Le
persone della mia generazione non sono minacciate da un triste dover
tornare - non sapremmo dove...”,
Anna Achmatova).
La morte,
invece di restare acquattata sotto il bordo destro della vita, sceglie
di aprire la sua faglia nera al centro, dilaniando in parti non più
componibili. Allora il
tempo si fa nemico definitivamente, e la fatica imcompibile di
rinascere corrisponderà a “l'estremo
tentativo di sfuggire alla percezione del mondo come una strada a senso
unico”
(Ibid.).
Come
da ogni morte, fioriscono rare bontà, infiniti dolori: “se
c’è qualcosa di buono nell’esilio è che insegna l’umiltà. Si può
perfino arrivare a dire che quella dell’esilio è la più alta lezione
di umiltà, la lezione definitiva” (Ibid.).
Ma succede anche che l'Io dell'esule, “non
più frenato da nessuno (…) cresce rapidamente di diametro e alla
fine, pieno di CO2, innalza il nostro uomo al di sopra della realtà –
specialmente se risiede a Parigi, dove i fratelli Montgolfier
stabilirono il precedente.” (Ibid.).
Essenzialmente,
dunque, una perdita senza ritorno: “Uno
scrittore in esilio è tutto sommato un essere retrospettivo e
retroattivo (…). Come i falsi profeti di Dante,
il nostro uomo ha la testa perpetuamente rivolta all’indietro e le
lacrime, o la saliva, gli scorrono giù tra le scapole.”.
Soprattutto: “…forse
l’esilio rallenta l’evoluzione stilistica sospingendo uno scrittore
verso posizioni conservatrici. Lo stile non è tanto l’uomo quanto il
sistema nervoso dell’uomo, e l’esilio, tutto sommato, non fornisce
ai nervi tutti gli agenti irritanti che può fornire la madrepatria.”
(Ibid.).
Da
ciò, solitudini senza fine,
non necessariamente nostalgiche. Anche perché scrivere pare sia già
esilio. Detto in schietto modo impiegatizio: “per
chi lavora nel nostro ramo, parlare al vuoto è cosa di tutti i giorni.”
(Dolore e ragione).
"la separazione è sorella minore della morte. Per chi rispetta le ragioni del
destino, v'è nel commiato una sinistra animazione nuziale."