Ulisse
non ha certo bisogno di presentazioni. L’uomo per eccellenza o, piuttosto,
l’ideale proiezione dell’umano moderno. E così Ulisse è l’eroe buono
per tutte le stagioni, l’uomo “prêt-à-porter”,
la creta plasmabile su ogni ideale letterario e perfino sulle
sue convenzioni.
Come
sottrarsi, dunque, alla tentazione di ripercorrere questi soliti binari,
alla ricerca del punto di scambio tra le rotaie?
Ulisse
o l’inganno. Ulisse o la vera solitudine: quella sazia di se stessa.
I
compagni di mare aleggiano sullo sfondo senza nome. Scompaiono, muoiono,
lasciati ai margini della scialuppa, con i tappi nelle orecchie restano
innocenti del canto delle Sirene, privi di conoscenza e quindi di
tensione. Prendono corpo soltanto per la loro condizione di vittime
del bisogno: la fame, che li fa piangere e li rende prigionieri. Oppure
lottano con i fantasmi marini impigliati tra vele e gomene, ignari
che nel ventre del nuovo cavallo di Troia - la nave, la zattera
- si agiti l’anima clandestina di Ulisse. Trascinati sull’orlo
delle porte dell’Erebo, come di Scilla dove, dice Circe, “voi dovete
drizzare la concava nave, splendido Odisseo”.
Il
capitano del “Compagno segreto” chiama
“Erebo” la nera collina di Kohring, l’isola contro cui, pur
di salvare il suo ospite clandestino, punta la prua della nave. E’
un ordine che dà contro il silenzio atterrito dei suoi marinai: “Era
piombato un tale silenzio sulla nave, che avrebbe potuto essere una
barca di morti che procedesse lentamente sotto la porta stessa
dell’Erebo.”
E
vince.
Lasciato
il clandestino alla sua sorte, il capitano ritrova la sua nave: “Nessuno
al mondo si sarebbe frapposto fra di noi gettando un'ombra sulla strada
della nostra silenziosa conoscenza e della nostra muta affezione,
la perfetta comunione di un marinaio con la nave…”
Come
Ulisse il Capitano affronta la sfida da solo, estraneo ribelle a un
tentativo di ordine che pure il mare rifiuta, sovverte, agita, ma
non tradisce.