AMLETO - Ci son
più cose in cielo e in terra, Orazio, che non sogni la tua filosofia.
(Atto I, sc. 5)
AMLETO - Oh Dio,
potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e sentirmi re dello
spazio infinito.
(Atto II, sc. 2)
«…quest’angusta
prigione, intendo dire l’universo…»
(B. Pascal,
Pensieri)
«Su uno sferico
globo
Chi ne abbia
copia, può rappresentare
Un’Europa,
un’Africa ed un’Asia,
E presto far di
quello ch’era nulla, Tutto…»
(J. Donne,
Commiato: Del piangere – tr. Di G. Melchiori)
Prendiamola alla larga:
«…un lungo discorso andrebbe
fatto in merito al manifestarsi del nichilismo prima della nascita del
termine stesso. (...) All’inizio dell’età nuova una raggelante
constatazione di Pascal dà la misura di quale profonda trasformazione
la cosmologia materialistica abbia causato nella posizione metafisica
dell’uomo nell’universo. «Inabissato nell’infinita immensità degli
spazi che ignoro e che m’ignorano – annota Pascal – io mi spavento» (Pascal,
Pensieri). Questo preoccupato lamento segnala che con la nuova
cosmologia moderna egli non può più abitare e sentirsi a casa propria
come nel cosmo antico e medievale. L’universo è ora percepito come
estraneo al suo destino individuale: gli appare come una angusta cella
in cui la sua anima si sente prigioniera oppure come una spaesante
infinità che la inquieta. Di fronte all’eterno silenzio delle stelle e
agli spazi infiniti che gli sono indifferenti, l’uomo sta solo con se
stesso. E’ senza patria.»
(F. Volpi, Il nichilismo,
Bari 1996)
Si potrebbe quindi concludere che
«c’è del marcio in Danimarca» e «c’è un certo disordine nei miei
nervi« (A. Strindberg, Inferno) siano la stessa frase.
Vale in ogni caso ricordarsi che spesso, quando gli uomini pensano
troppo, è perché osservano poco.
Cos’è piccolo, cos’è grande? Cos’è
buono e cos’è cattivo? Potrebbe essere che, in uno slancio di egotismo
scambiato per mistica, si possa dire che per Dio un’intera ghirlanda
di galassie non valga un sussulto del mio cuoricino ulcerato? Sarà, ma
allora perché farle (le galassie)? Per il cuoricino? Basterebbe un
ologramma.
Nella frase, magari anche molto pia
e cristiana, che dice che «le montagne la cui vista inorridisce, nel
cuore non sono che atomi» (J. P. de Caussade, L’abbandono alla
Provvidenza Divina, 1741, Milano 2003) già faccia capolino il
distruttore di foreste tropicali, perfette di fiumi pappagalli e
anaconda, ma pur sempre meritevoli di distruzione in quanto
imperdonabilmente prive di anima…
Sul sono tutto e solo io,
certo sarebbe da sapere a memoria l’estremo monologo, magnifico e
molto pre-amletico, di Riccardo II che comincia: «E’ da qualche tempo
che penso come possa mettere a paragone la prigione in cui vivo e il
mondo» (Riccardo II, Atto V, sc. 5).
Ci consolerebbe nei momenti mesti e farebbe fare bella figure almeno
con le donne pensose. Qui il fine giustifichi i mezzi; ma senza
crederci troppo, senza credere troppo insomma a noi stessi, e al
nostro potere di scambiare i nostri minuscoli instabili giudizî per la
realtà.
Su questo, era per esempio molto
onesto Leopardi, che da sensista irridente sull’impossibilità
del giudizio ha scritto nelle Operette pagine
indimenticabili (dementia e alzheimer permettendo).
Amleto, si sa, a un certo punto
millanta questa sua capacità – è un giovane contorsionista mentale -
di star comodo in un guscio di noce e allo stesso tempo bestemmiare
gli spazî infiniti per i quali non basterà certo il recente
cannocchiale. Ora però c’è voluto il più truce di trucchi -
l’apparizione di uno Spettro dalla invincibili fattezze paterne - per
precipitarlo (oltre che nelle sue) nella catastrofe della Storia,
nel suo Reale & Razionale, nella sua farsa: regicidî, complotti, spie,
aspirazioni, vendette, troni. – Una volta apparso lo Spettro, anche se
poi Amleto prova a restar sospeso tra credere o non credere, e fare o
non fare (e prolungare un po’ la giovinezza), ormai la frittata
storica è fatta: non ci saranno più gusci di noce – più persuasivi di
ogni mondo vero – in cui stare al riparo dell’Eterna Guerra Mondiale.
La Storia, come la mafia, raggiunge lo sventurato anche nel fondo
dell’oceano: da lì lo scardina a piacimento.
Insomma: questa che Amleto può
vivere in un guscio di noce («There is nothing either good or bad, but
thinking makes it so» Atto II, sc. 2) è una delle tante
commoventissime balle del principe tendente come sempre a platonizzare
un po’ troppo; tant’è che, a proposito di gusci, lo commuove
Fortebraccio dal sangue
caldo che va con la sua soldataglia a farsi ammazzare «per un guscio
d’uovo» («for an eggshell»,
Atto IV, sc. 5). Fuor di metafora, per un lembo di Polonia:
terra, come si sa, sventurata e il cui punto di vista, su chi sia il
guscio di chi, sarebbe interessante.
Intanto è un fatto che Amleto non
trovi un guscio né di noce né d’uovo, né virtuale né reale, che lo
contenga se non come un letto di Procuste.
A sostegno della nostra cattiveria,
diciamo che c’è proprio in Shakespeare chi saprebbe molto praticamente
rispondere ad Amleto su questa faccenda del pensiero che
decreta l’ampiezza dei gusci di noce e l’angustia delle libere
galassie, ed è il forterbraccesco Bolingbroke quando chiede:
«Chi riesce a tenere il fuoco in mano volgendo la mente al Caucaso
gelato? O calmare l’acuto stimolo della fame col solo pensiero di un
banchetto?» (Riccardo II, Atto III, sc. 3).
Siccome è un aristocratico, butta
lì il Caucaso gelato; mentre magari, direbbe al principe il
becchino, quanto
comoda e larga resterebbe la noce infinita se appena appena arriva un
po’ di male ai denti del giudizio? E’ dunque vero che «nous appellons
valeur en les choses, non ce qu’elles apportent, mais ce que nous y
apportons» (Montaigne, Essays), il che però. E chi più
di Montaigne concorderebbe?, dipende da un libero atto di volontà solo
in assenza di mal di denti. Un’osservazione del genere l’avevamo letta
in un articolo di Enzensberger sui giovani che partivano per la
mitica India dando per scontato che nessuna dissenteria avrebbe reso
inevitabile la nostalgia della mutua e delle farmacie di turno.
Nel mondo che, dalla disperazione
per il dubbio di tutto, sta per far scaturire il fondamento
egocentrico del cogito di
Cartesio
che tutto riduce «a esperienze tra l’uomo e se stesso» (H. Arendt,
Vita activa, Milano 2006), in Shakespeare leggi che sarà
anche meravigliosa codesta - del resto già un po’ stoica –
autosufficienza celeste della mente, come la capacità
dell’immaginazione di ingrandire «le piccole cose sino a riempircene
l’anima con una valutazione fantastica» (B. Pascal, Pensieri),
«ma il pensiero è schiavo della vita e la vita è lo zimbello del
tempo, e il tempo, che abbraccia nella sua rassegna tutto il mondo,
deve anch’esso aver fine» (Enrico IV, Parte I, atto V, 4).
E, come giustamente è stato notato, in Shakespeare non c’è personaggio
che non abbia ragione nei suoi cinque minuti di gloria.