Scena cruciale:
AMLETO -
Oh, i pifferi
[sono
rientrati gli attori con i pifferi]!
fatemene vedere uno. Mettiamoci in disparte; perché vi date da fare
per venirmi sopravvento, come se voleste cacciarmi in una rete?
GUILDENSTERN - Oh, mio signore, se il mio dovere mi fa troppo
ardito, il mio amore mi rende troppo scortese.
AM: Questa
non la capisco bene. Volete suonare questo zufolo?
Guild: Mio
signore, non posso.
AMLETO - Vi
prego.
GUILDENSTERN - Credetemi, non posso.
AMLETO - Vi
supplico.
GUILDENSTERN - Io non me n’intendo affatto, mio signore.
AMLETO - E’
facile come il dir bugie; governate questi fori con le dita e i
pollici, dategli fiato con la bocca, e favellerà una musica
eloquentissima. Guardate, questi sono i fori.
GUILDENSTERN - Ma io non so far esprimere ad essi alcuna armonia; io
non ho l’arte.
AMLETO -
Ebbene, guardate ora, come dappoco voi mi stimate! Voi vorreste
sonare su di me-, vorreste parere di conoscere i miei tasti;
vorreste strappare il cuore del mio mistero; vorreste sonarmi dalla
mia nota più bassa fino alla cima del mio registro; e c’è molta
musica, una voce eccellente, in questo piccolo organo, e pure voi
non potete farlo parlare. Per il sangue di Cristo, credete che io
sia più facile a sonarsi d’uno zufolo? Datemi il nome dello
strumento che volete, benché voi mi pizzichiate, voi non potete
sonarmi.
(Atto III,
sc. 2)
Dove il piffero è l’Amleto,
e Rosencrantz e Guildenstern i critici, o, in senso lato, i lettori
nei loro attacchi di saccenza: quindi noi.
Essendo eminentemente umano
essere «ricchi di una scienza estranea» (M. de Montaigne,
Saggi, vol. III, Milano 1986), ronzano su Amleto sciami di
libri «così mediocri che neppure l’esattezza potrebbe migliorarli»
(O Wilde, Autobiografia di un dandy, Milano 1996).
Bloom per dire lo stesso sceglie sempre nel dramma un altro
personaggio: «Chi cerca di categorizzare questo “poema infinito”
comincia ad assomigliare a Polonio» (H. Bloom, Shakespeare,
Milano 2003), vero: anche se è difficile sostenere che almeno
lui la faccia franca. Ma questa è certamente giusta: «Non loderemo
mai abbastanza l’astuzia dimostrata da Shakespeare nel creare Amleto
come un girotondo di contraddizioni, sebbene il risultato siano
stati quattro secoli di letture errate, sia pure in alcuni casi
molto fantasiose»; l’errore delle quali letture è tenerci molto a
incastonare la perla amletica in un contesto – storico o
addirittura occasionale - che l’incastri una buona volta (Ibid.)
in un quadro di stabile, verrebbe da dire, pedagogicità.
Concluderemo quindi una volta di
più in trionfo: Amleto è uno di quei testi che, con la
sua stessa sopravvivenza a tutto, prova come gli errori che nel
corso del tempo gli si erano riconosciuti furono sempre errori di
lettura, vale a dire errori della critica. Errori che
evaporano via dal testo come pioggia sul vetro. Il che del resto è
di tutte le letture (vedi il titolo di questa rubrica).