AMLETO (a Laerte nella tomba di Ofelia) -
…saprò farneticare quanto te.
(Atto V, sc. 1)
AMLETO - Ma io sono assai dolente, buon Orazio, di essermi lasciato andare
con Laerte; perché, dall’immagine della mia causa, io vedo il ritratto
della sua…
(Atto V, sc. 1)
AMLETO - …ed ho ferito mio fratello.
(Atto V, sc 2)
Come una paperetta nel caos angoscioso
d’imprinting falliti, il povero Amleto ama specchiarsi
mimeticamente con gli strategici coetanei che entrano anche solo nel suo
orizzonte più largo (cfr. R. Girard, Shakespeare, il teatro
dell’invidia, Milano 1998). Vede quindi sia in Fortebraccio che in
Laerte due gemelli mancati. In particolare Laerte, figlio di Polonio e
fratello di Ofelia – un vagheggiato cognato! -, gli appare gemello nel suo
stesso desiderio di vendetta. Essendo Amleto un cuor gentile, non lo
condiziona il fatto che la vittima del sacro incontestabile gesto debba
essere lui stesso.
Ma niente di più di questi specchî sono
parti mentali e solitari: Laerte di suo non si specchia in Amleto. Lo odia
con semplicità e senza fantasia. Laerte poi ha una mamma pura, e ci tiene:
se l’onta dell’omicidio di Amleto restasse impunita, «sulla sua fronte
casta e immacolata» si stamperebbe un insopportabile marchio di puttana
(Atto IV, sc. 5): che è quanto francamente pensa Amleto di sua madre.
Amleto dà la colpa della lussuria materna a Claudio («ha fatto puttana mia
madre», Atto V, sc. 2), però Laerte ha una sorella che, oscenamente
impazzendo, mette in piazza uno scandalo su cui semplicemente non c’è
tempo di ricamare – siamo alla fine del quarto atto! – ma che facilmente
fa pensare che Amleto l’ha avuta senza sposarla, facendo di lei – come
padre e fratello paventavano all’inizio - quello che Claudio avrebbe fatto
di Gertrude.
Aggiungi il fatto che Laerte,
nonostante l’università di Parigi, resta un barbaro non più che ripulito,
e pronto con niente a risvegliare il DNA degli Avi quando si tratta di
vendetta. Interessante che due tipi così diversi piacessero tanto al
popolo di Danimarca da volerli
entrambi e al contempo re: forse perché si somigliavano esteticamente?
Torniamo ai fatti. Saputo il delitto,
Laerte accorre in Danimarca per ammazzare Amleto subito, qualunque cosa
per questo potesse riservagli Iddio. Quando appare al cospetto del Re,
dice subito una frase da Amleto primordiale (Saxo
Grammaticus e
Belleforest,
per intenderci, e non Shakespeare): «O tu, infame re, ridammi mio padre!»
(Atto IV, sc. 5). Quando, con sangue freddo davvero regale, Claudio
gli spiega l’accaduto, Laerte promette l’essenziale senza fronzoli
barocchi, o, se si preferisce, moderni: «Sono deciso in questo, a non
curarmi / né dell’uno né dell’altro mondo di là, / accada quel che accada.
Basta che abbia / vendetta per mio padre.», Atto IV, sc. 5). Così,
mentre Laerte per il padre andrebbe all’inferno, Amleto s’era interrogato
senza mai vera soluzione sulla vera natura del fantasma del padre, forse
addirittura un emissario di Satana venuto a tentarlo e perderlo; e se
Amleto non uccide Claudio perché quando potrebbe farlo sta pregando,
Laerte è subito pronto a tagliare ad Amleto «la gola in chiesa» (Atto
IV, sc. 7).
Proprio in questa scena si fa chiara la
differenza essenziale tra i due: Amleto è una testa e il solerte Laerte un
braccio. Quando Claudio lo persuade a complottare con lui, è Laerte stesso
a dirlo: che del portentoso piano del re (veleni, duelli truccati e coppe
di vino!) gli sia concesso di essere lo «strumento» («That I might be the
organ.»)! Che a pensarci, però, potrebbe essere un’altra frase di Amleto
al cospetto dello Spettro, solo che poi fa di testa sua.
«Qui ci troviamo di fronte e una violenta
antitesi (nello stile di Victor Hugo): Laerte ha ereditato il movente
patetico di Amleto: vendicare la morte del padre. C’è così, nel
trattamento, una fuga o un canone, ché Laerte prende e tiene il registro
di Amleto, ma da basso (Amleto era tenore).»
(A.
Strindberg, Amleto e Faust, Milano 1988)
(Su questo, vedi
anche simmetrie)