STREGA - ma io volerò là in uno staccio
E come uno scodato sorcio,
farò, farò, farò…
(Macbeth, Atto I, sc. 1)
HAMLET - what should we do?
(Atto I, sc. 4)
QUEEN - What shall I do?
(Atto III, sc. 4)
«Quid agis, homuncio?
Quid somnias? Quid expectas? Miseriarum ne tuarum sic prorsus oblitus
es? An non te mortalem esse meministi?»
(F. Petrarca, Secretum)
Che si deve fare? Amleto lo chiede
subito al paterno (?) Spettro e la Regina al figlio forsennato che
(Atto III, sc. 4) quasi la cavalca nel letto pseudincestuoso. Lei:
cosa devo fare? E lui:
«Non quello, Dio ne scampi, che
t'ho detto di fare: lascia che il re pancione ti attiri ancora a
letto, ti pizzichi la guancia, ti chiami sua topina, e per un paio di
baci schifosi o qualche frugatina delle sue dita infami ti faccia
snocciolare tutta questa faccenda che in realtà non sono affatto pazzo
ma pazzo ad arte. È bene farglielo sapere perché chi mai, essendo
soltanto una regina bella, sobria, saggia, nasconderebbe a un rospo, a
un pipistrello, a un micione, faccende così gravi per lui? Chi lo
farebbe? No, contro ogni buonsenso, ogni riservatezza, togli il piolo
alla gabbia sul tetto della casa, fa volar via gli uccelli, e come la
scimmia della favola, per arrivare in fondo, cacciati nella gabbia e
giù, rompiti il collo.»
Chiaro?
Sintomatiche e oscure vertigini di
antifrasi, e di antifrasi di antifrasi, con un intero
bestiario
metaforico di cui forse s’è del tutto perso il senso (la scimmia? la
gabbia? gli uccelli?): se meno per meno fa sempre più, qui le
negazioni di negazioni esagerano, e sono talmente vorticose (in
soldoni: «NON fare quello che ti ho detto di fare e cioè di NON dire
che NON sono pazzo…») che alla fine come la regina anche noi
non siamo più sicuri di niente. Che non è quello che vuole Amleto ma
magari ciò che interessa a Shakespeare.
Cosa devo fare, soprattutto, è un
altro dei Leitmotiven che intricano il tessuto del dramma. Cosa
serve a giustificare il fare? Amleto se lo chiede continuamente e
sempre sbatte contro l’evidenza che il fare non ha niente da chiedere
al pensiero: «E tutto per niente.
Per Ecuba»
(Atto II, sc. 2);
«E questo per un guscio d’uovo... per una pagliuzza» (Atto IV, sc.
4): ecco, in una «scena tanto ridicola quanto sinistra» (R.
Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano 2002),
Amleto è stupefatto - stupore morale - dall’esercito che Fortebraccio
sta portando a morire per uno straccetto di terra salsa.
Sarà allora sempre
bene ricordarsi che «Hamlet is, through the whole play, rather an
instrument than an agent» (S. Johnson,
The Plays of William
Shakespeare,
1765).
Perché noi no?
Gli uomini sono capaci di grandi
cose solo per «niente», il che taglierebbe fuori lui – che
paradosso - proprio perché Amleto ha un motivo per agire ferocemente
(«What would he do, / Had he the motive and the cue for passion That I
have?», Atto II, sc. 2); o meglio: avere un motivo o non averne
nessuno, rispetto al fare, sono la stessa cosa:
«Essere (l’incrinato verbo di
Amleto – guarda caso è posto alla fine del verso, a precipizio sul
niente, da sospendere nell’esitazione dell’enjambement)
/ veramente grandi non significa agire / senza un grave motivo, ma con
grandezza / affrontare la lotta per una pagliuzza / quando è in gioco
l’onore» (Atto IV, sc. 4, 53-56). Qui Amleto cerca ancora una
volta di fare il sentenzioso, ma proprio queste pause non sintattiche
e non a senso, queste esitazioni sui verbi suoi più cruciali:
essere… veramente grandi; agire…. senza un grave motivo; con
grandezza… affrontare.
In Italia, pochi decenni prima, il
Dio dell’enjambement era stato il Tasso, animo franto
proverbialmente, mito che da
Montaigne arriverà a tutti i
romantici.
«Ora che cosa c’è di più stolto del
combattersi così, non si sa per che ragione, col bel risultato che
ciascuna delle due parti ne ricava sempre più danno che vantaggio?»
(Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, cap. XXIII).
La parola chiave della morale amletica sarebbe ancora onore (la
posizione di
Mario Praz)? –
Onore: «l’assolutamente
violabile» (G. W. F. Hegel, Estetica).