AMLETO - …quest’età
di merda
(Atto V, sc. 2,)
«Amleto non ha alcuna fede in se stesso né in nient’altro (…) il poeta
si perde con lui nei labirinti del pensiero, in lui non si trova né
inizio né fine.»
(A.
W. SCHLEGEL, Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur)
Dice Claudio che il giovane
Fortebraccio s’illude che, morto il vecchio Amleto, «our state to be
disjoint and out of frame» («il nostro Stato sia sconnesso e fuor di
sesto», Atto I, sc 2). Il copyright della celeberrima battuta
con cui Amleto chiude il primo atto («The time is out of joint: O
cursed spite, / That ever I was born to set it right!», Atto I, sc.
5) è dunque un’eco di questa di Claudio. E certo le differenze
valgono quanto le somiglianze: rispetto al Fortebraccio immaginato da
Claudio, l’Amleto ormai invasato dallo Spettro è uno che esagera:
generalizza (non solo lo Stato ma il Tempo è scardinato), ed è
un megalomane («I was born to set it right!»). Se lo rimettesse in
sesto davvero sarebbe il Cesare che non è; e anche lui, del resto,
quando si paragona al sole attorno al quale tutto gira (un copernicano
prima di Copernico!) e al perno che tiene in sesto il mondo, come
nelle barzellette dice appena le ultime parole famose di uno che sta
per essere ammazzato (Giulio Cesare, Atto III, sc. 1).
L’idea di esser stato consegnato
dalla sorte a un tempo marcio e corrotto fa, per Amleto, da sfondo
addirittura ovvio del suo dramma: la terra è un «globo sconvolto» («distracted
globe», Atto I, sc. 5) e «nulla va bene» (Atto I, sc. 2)
in «quest’età di merda» («drossy age», Atto V, sc. 2 – così
traduce D’Agostino, Lodovici «età di sterco»,
Montale e Lombardo «immonda», però Serpieri e Squarzina
«frivola» e d’Amico «epoca di princisbecco»). In ogni caso un mondo
capovolto rispetto a quanto pur sempre a parole si dice il bene:
«nella pinguedine di questi
tempi obesi, / la virtù stessa deve chiedere perdono al vizio»
(Atto III, sc. 4).
Tempora e mores però li giudica
chi? E certo non occorre arrivare
a chissà quale filosofia della conoscenza per sospettare che fuor di
sesto possa essere non il cosmo ma la propria disturbatissima
percezione: così Amleto appare più disarmato e onesto quando confida –
e quanto sincero sia e quanto menta chi lo sa – a Rosencrantz e
Guildenstern «da qualche tempo, perché non so, ho perso tutta la mia
allegria» (Atto II, sc. 2). Il rischio dell’introspezione è la
perdita del mondo: in Montaigne, fonte tra le meno
incerte dell’Amleto, torna la stessa metafora dello
scardinamento: «Io che mi sorveglio più da vicino, che ho gli occhi
incessantemente fissi su di me, come colui che non ha molto da fare
altrove (…) oserei appena dire la vuotezza e la debolezza che trovo in
me (…) e la mia vista così fuor di sesto…» (M. de Montaigne,
Saggi, vol. II, Milano 1986).
E Amleto che sa tante cose e si fa tante domande, questo se lo chiede
solo sub limine, o meglio: pare essere il testo a chiederlo per
lui: che senso può avere la
vendetta assestatrice nello «sconfinato mondo, pieno di mali ovunque,
nell’infinito passato, nell’infinito futuro» (A. Schopenhauer,
Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819)?