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Il Compagno segreto" - Lunario letterario.Numero 12, settembre 2007 

 


n. 12 °*° W. Shakespeare : Fantasmi di Amleto  °*° n. 12

6.  Drossy age

 


 

AMLETO - …quest’età di merda

(Atto V, sc. 2,)

 

«Amleto non ha alcuna fede in se stesso né in nient’altro (…) il poeta si perde con lui nei labirinti del pensiero, in lui non si trova né inizio né fine.»

(A. W. SCHLEGEL, Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur)

 

 

 

Dice Claudio che il giovane Fortebraccio s’illude che, morto il vecchio Amleto, «our state to be disjoint and out of frame» («il nostro Stato sia sconnesso e fuor di sesto», Atto I, sc 2). Il copyright della celeberrima battuta con cui Amleto chiude il primo atto («The time is out of joint: O cursed spite, / That ever I was born to set it right!», Atto I, sc. 5) è dunque un’eco di questa di Claudio. E certo le differenze valgono quanto le somiglianze: rispetto al Fortebraccio immaginato da Claudio, l’Amleto ormai invasato dallo Spettro è uno che esagera: generalizza (non solo lo Stato ma il Tempo è scardinato), ed è un megalomane («I was born to set it right!»). Se lo rimettesse in sesto davvero sarebbe il Cesare che non è; e anche lui, del resto, quando si paragona al sole attorno al quale tutto gira (un copernicano prima di Copernico!) e al perno che tiene in sesto il mondo, come nelle barzellette dice appena le ultime parole famose di uno che sta per essere ammazzato (Giulio Cesare, Atto III, sc. 1).

 

L’idea di esser stato consegnato dalla sorte a un tempo marcio e corrotto fa, per Amleto, da sfondo addirittura ovvio del suo dramma: la terra è un «globo sconvolto» («distracted globe», Atto I, sc. 5) e «nulla va bene» (Atto I, sc. 2) in «quest’età di merda» («drossy age», Atto V, sc. 2 – così traduce D’Agostino, Lodovici «età di sterco»,  Montale e Lombardo «immonda», però Serpieri e Squarzina «frivola» e d’Amico «epoca di princisbecco»). In ogni caso un mondo capovolto rispetto a quanto pur sempre a parole si dice il bene: «nella pinguedine di questi tempi obesi, / la virtù stessa deve chiedere perdono al vizio» (Atto III, sc. 4).

 

Tempora e mores però li giudica chi? E certo non occorre arrivare a chissà quale filosofia della conoscenza per sospettare che fuor di sesto possa essere non il cosmo ma la propria disturbatissima percezione: così Amleto appare più disarmato e onesto quando confida – e quanto sincero sia e quanto menta chi lo sa – a Rosencrantz e Guildenstern «da qualche tempo, perché non so, ho perso tutta la mia allegria» (Atto II, sc. 2). Il rischio dell’introspezione è la perdita del mondo: in Montaigne, fonte tra le meno incerte dell’Amleto,  torna la stessa metafora dello scardinamento: «Io che mi sorveglio più da vicino, che ho gli occhi incessantemente fissi su di me, come colui che non ha molto da fare altrove (…) oserei appena dire la vuotezza e la debolezza che trovo in me (…) e la mia vista così fuor di sesto…» (M. de Montaigne, Saggi, vol. II, Milano 1986).


E Amleto che sa tante cose e si fa tante domande, questo se lo chiede solo sub limine, o meglio: pare essere il testo a chiederlo per lui: c
he senso può avere la vendetta assestatrice nello «sconfinato mondo, pieno di mali ovunque, nell’infinito passato, nell’infinito futuro» (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819)?


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