«Ben scavato, vecchia 
      talpa!»
      
      
      (Atto I, sc. 5)
      
       
      
       
      
       In questo capolavoro scritto quando 
      ancora l’uomo stava dentro una Natura ben più grande e potente di lui, gli 
      animali offrono ottime figure anche per i paradossi.
      
      Il re: «Come 
      vive il nostro nipote Amleto?»; e lui: «Ottimamente, in fede: del piatto 
      del camaleonte; io mangio l’aria, 
      infarcita di promesse; non potete nutrire così i 
      capponi» (Atto III, sc. 2). 
      
      A Polonio, opponendo l’età veneranda di 
      lui alla sua decrepita giovinezza, il principe fa notare che «voi stesso, 
      messere, sareste vecchio come me, se come un 
      granchio poteste andare all’indietro» (Atto II, sc. 2).
      
      
       
      
      In questa scena è cattivissimo, come un 
      comico con la sua spalla, quando gli riduce la figlia a cadavere: «se 
      il sole genera vermi in un
      cane / morto – ottima carne da 
      baciare!... Avete una figlia?» (Ibid.). L’ipersillogismo 
      potrebbe essere il seguente: se il sole (che in inglese si pronuncia tal 
      quale a «figlio») bacia la carne che così si corrompe e genera 
      vermi – di certo tra gli animali preferiti da Amleto - che a loro volta 
      baciano la carne, non lasci che sua figlia sia esposta al sole 
      (figlio) perché non sia ugualmente corrotta («Let her walk i’th’ 
      sun.»).
      
       
      
           
 
      
       
      
      Sempre col servile Polonio, che avvertì 
      Ofelia che la corte del signorino eran «trappole per 
      beccacce» (Atto 
      I, sc. 3), Amleto si diverte 
      anche a guardare una nuvola, sempre, benché del tutto arbitrariamente, 
      zoomorfa:  prima è un cammello, poi 
      una balena: Il cortigiano Polonio, già 
      attor giovane «pecorone» 
      (o capodoglio? 
      «calf») nella parte di Cesare, 
      dice di sì, anche se nella nuvola noterebbe piuttosto il dorso d’una
      donnola» (Atto II, sc. 2). Ma 
      Polonio ha troppe parole e quando giura sull'onore è come se giurasse «on 
      his ass» (Ibid.), che vale sia per dire sul suo
      asino che che sul suo culo.
      
       
      
      Quando parla del re Claudio, lo zoo di 
      Amleto sciorina altri animali: quando vede che il dramma di Gonzago 
      ferisce il Re come secondo lui potrebbe solo la verità (Polonio direbbe 
      che «l’esca della menzogna prende questa / carpa 
      di verità”, Atto II, sc. 1), le metafore sono due ed entrambe 
      cornute:  «Ferito daino, ebben, che 
      pianga / e scherzi il cervo mondo» 
      (Atto III, sc. 2). 
      
      A proposito della messinscena - come si 
      sa - almeno degli attori Amleto è contento, e certo li preferisce così 
      adulti ed esperti a qui giovani che andavano di moda ai tempi in realtà 
      non della sua  medievale Elsinore ma dei suoi spettatori londinesi: «falchetti 
      che strillano» (Atto II, sc. 2) li chiama Rosencrantz. 
      
      Il meglio del peggio avviene poco dopo 
      nello sfogo terribile sul letto della madre, quando Claudio è «un
      rospo, un 
      pipistrello, un gatto», 
      tricolon che ai tempi costituiva un climax evidente di schifo, data la 
      fama universale del micio come animale lubrico, infido e stregonesco (Macbeth, 
      Atto I, sc. 1).
      
       
      
           
 
      
       
      
      Claudio e la moglie, la mamma del 
      nostro, sono accomunati dall’essere bestie: lei perché «una
      bestia a cui manca il discorso della 
      ragione, avrebbe pianto più a lungo» la morte del primo marito (Atto I, 
      sc. 2), Claudio nelle stesse parole dello Spettro, che però ci va 
      cauto quando parla dell’ex-moglie, che è «bestia 
      incestuosa e adultera» (Atto I, sc. 5).
      
      Sulla mamma, infine, Amleto è 
      cattivissimo quando, in un isterico vortice di antifrasi e di antifrasi di 
      antifrasi, le dice: «a dispetto del buon senso e della segretezza, 
      spiccate la cesta dalla cima della casa, fate volare gli
      uccelli e come la famosa
      scimmia, per provare le conseguenze, 
      entrate nella cesta, e rompetevi il collo cadendo» (Atto III; sc. 4): 
      il solito sprezzante maleducato, che accennando a una favola di cui s’è 
      persa notizia, per intimarle il silenzio sulle terribili cose emerse nel 
      loro incontro. Ma come esser sicuri che almeno la madre abbia capito?
      
       
      
      Al cimitero, estatico nelle sue 
      illazioni su di chi possa essere ogni anonimo cranio, quando arriva agli 
      avvocati e agli stipulatori di contratti ad Orazio dice così:
      
       
      
      AMLETO - Di’, la pergamena non è pelle 
      di pecora?
      
      ORAZIO - Sì monsignore, e anche di
      vitello.
      
      AMLETO - Pecore 
      e vitelli son quelli che cercano garanzia in queste cose….
      
      
      (Atto V, sc. 1) 
      
       
      
      A portargli la mendace proposta del 
      duello con Laerte è il fatuo, ed evidentemente aereo, Osric che Amleto chiama
      libellula, e Orazio, appena se n’è 
      andato, pavoncella che «vola via col 
      guscio sulla capoccia» (Atto V, sc. 2).
      
       
      
      A parte gli animali che fanno 
      dell’umano cadavere una tappa dell’eterno 
      ciclo alimentare.