Ovvero «parole
stravaganti e sconnesse» (Atto I, sc. 5): è quanto Orazio si
sente di dire delle parole di Amleto dopo l’incontro con lo Spettro,
quello stesso Orazio che, quando Amleto si divincola dagli amici che
provano a trattenerlo, pur avendo visto con lui il fantasma dice una
battuta di sorprendente lungimiranza: «l’immaginazione lo rende
forsennato» («He waxes disperate with imagination»,
Atto I,
sc. 4)!
E’ dunque
davvero diventato pazzo? Nelle versioni antiche (per Shakespeare
soprattutto Saxo Grammaticus
e Belleforest), la pazzia
di Amleto è una furbata alla Ulisse per aiutare la vendetta: invece
che fingersi vecchio e mendico in mezzo ai giovani Proci, fa il pazzo
tra i vecchi sospettosi - e le loro spie –nella sua casa. Ma in
Shakespeare, il fatto che all’inizio, subito dopo le rivelazioni dello
Spettro, dica ai suoi che
farà il
pazzo che non è («forse d’ora innanzi riterrò opportuno / assumere un
umore lunatico», Atto I, sc. 5), invece che darci una
soluzione, è l’inizio del problema: tanto simpatetica apparirà la
follia del principe a una follia vera, e così inconfutabilmente
lancinante il suo dolore, che nessuno spettatore potrà azzardare tra
sé e lui la distanza di una diagnosi, per consolare almeno la sua
sanità mentale.
Più ci si
ragiona, meno si capisce: la furbata del fingersi pazzo viene
dichiarata da Amleto ai suoi compagni
dopo
l’incontro con lo Spettro, ma quegli stessi compagni, e più di tutti
ovviamente Orazio, lo avevano pregato di
non seguire
lo Spettro perché sono incontri come quelli coi fantasmi – veri morti
o diabolici simulacri? - che bruciano il cervello agli uomini. Amleto
può essere uno dei tanti pazzi che dice che sta fingendo di essere
pazzo: quanti ne esistono di pazzi così intelligenti?
Ma Amleto
stesso si contraddice: quando dice a Rosencrantz e Guildenstern «Io
ultimamente, ma perché non so, ho perso tutta la mia allegria»
(Atto II, sc. 2), finge? Quel
perché non so
ricorda subito un altro celeberrimo perdersi senza sapere come: quello
di Dante nella selva oscura, «i’ non so ben ridir com’i’ v’entrai»
(Inferno,
canto I, v. 10),
in cui Manganelli vide una perfetta descrizione dell’entrata
nella depressione, o, come si diceva ai tempi di Amleto, nella
malinconia. E quando Amleto urla a Ofelia, in pieno raptus misogino,
che il vizio delle femmine di imbellettarsi e civettare è la colpa di
tutto, che «questo
mi ha fatto impazzire» (Atto II, sc. 1), finge?
«La follia gli è attribuita per
errore di apprezzamento dai cosiddetti furbi (Polonio), dagli ignari
(Ofelia), e dai delinquenti angosciati (l’usurpatore e la regina).
Nevrosi, dunque, non psicosi» (C. E. Gadda, I viaggi la morte).
E si sa che quando l’infinito Gadda nomina la nevrosi sa quel
che dice.