BERNARDO – Chi è
là?
FRANCESCO – No,
parla tu. Fermati.
Chi sei?
(Atto I, sc. 1)
Le cime tempestose di Elsinore nel
mezzo della notte buia e tempestosa dell’Amleto piacque
incondizionatamente perfino al criticissmo
Eliot: quei primi ventidue versi «composti con le
parole più semplici nell’idioma più familiare. Shakespeare aveva
lavorato a lungo nel teatro e scritto molte opere di valore, prima di
raggiungere il livello in cui poteva scrivere quei ventidue versi… Un
poeta è lontanissimo dal saper padroneggiare il verso drammatico
finché non sa scrivere versi che, come questi nell’Amleto,
sono trasparenti.»
(T. S. Eliot,
Poetry and Drama, in On Poetry and Poets, 1957).
Perché la notte?
Hegel seppe dire tutto in un botto: «Le potenze
notturne della tragedia attaccano all’improvviso» (G. W. F. Hegel,
Estetica). «Forse è perché sta per accadere qualcosa di
inaudito, e che cosa ci si può augurare di meglio? L’assenza di
orizzonte fa paura, ma è forse la condizione affinché accada qualcosa
di inaudito. Questo qualcosa, come sempre, può essere la morte.»
(J. Derrida, Sulla parola, Roma 2005). – A seconda
dell’estro, facili o ardui pensieri romantici: «Nella notte si
trova la morte, si raggiunge l’oblio. Ma questa altra notte è
la morte che non si trova, è l’oblio che si oblia, che è, entro
l’oblio, il ricordo senza riposo.» (M. Blanchot, Lo spazio
letterario, Torino 1975).
A cotal cospetto, il buon senso di
Schopenhauer può apparire retrò come un sermone positivista: «In una
compagnia chiassosa, e alla luce di molte candele, la mezzanotte non
si presenta più come l’ora dei fantasmi. Tale invece è il caso per la
mezzanotte tenebrosa, tranquilla e solitaria. Già per istinto noi
temiamo allora il verificarsi di apparizioni, che si presentano come
totalmente esterne, per quanto la loro causa prossima risieda
in noi: noi temiamo così propriamente noi stessi. Chi teme il
presentarsi di tali apparizioni, in realtà fa compagnia a se stesso»
(A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena).