Sono ciò che sono? Sono ciò che faccio?
«Era beninteso
l’età di Hegel che cominciava a leggere in Shakespeare il proprio
soggettivismo, e ad esaltarlo ed esaltarsi in lui dandone una
lettura fascinosa e infedele.»
(N. D’Agostino, Shakespeare e i greci, Roma 1994)
«Che poi noi si sia quello che ci manca, beh!, questo è un altro
fatto…»
(CB in: U.
Artioli – C. Bene, Un Dio assente, Milano 2006)
«La società non sa che farsene dei nostri pensieri: ma quello che
resta…»
(M. de Montaigne,
Saggi, vol. I, Milano 1986)
«…gli eroi tragici sono
sia colpevoli che innocenti. (…) Essi sono ciò che sono e per
sempre, e questa è la loro grandezza. Infatti la debolezza
nell’azione consiste solo nella separazione del soggetto come tale
dal suo contenuto, cosicché carattere, volontà e fine non appaiono
concresciuti assolutamente in uno, e l’individuo, poiché per lui non
vive nella sua anima nessun saldo fine come sostanza della sua
individualità, come pathos e potenza di tutta la sua volontà, può
essere ancora indeciso se svolgersi in una direzione o in un’altra e
può operare la decisione a suo arbitrio. Questa incertezza ed
indecisione sono lontane dalle figure plastiche; per esse il vincolo
fra soggettività e contenuto della volontà resta indissolubile. Quel
che li spinge a compiere i loro atti è appunto il pathos
eticamente legittimo che essi fanno valere con patetica
eloquenza, gli uni contro gli altri, non con la retorica soggettiva
del cuore e la sofistica della passione, ma con quell’oggettività
sia consistente che sviluppata, in cui per profondità, misura e
bellezza plasticamente viva fu maestro soprattutto Sofocle.
Ma al contempo il loro pathos pieno di collisioni li porta ad atti
colpevoli, offensivi. Di questi atti però essi non vogliono
essere innocenti; al contrario la loro gloria è avere realmente
fatto ciò che hanno fatto. Ad un tale eroe non si potrebbe dire cosa
peggiore che affermare che ha agito senza sua colpa. E’ il vanto
dei grandi caratteri assumersi la colpa dei propri atti.»
(…)
«Per mettere in rilievo la
differenza più precisa che a questo riguardo vi è tra la tragedia
antica e quella moderna accennerò solo all’Amleto di
Shakespeare, che ha a fondamento una collisione analoga a quella
trattata da Eschilo nelle Coefore e di
Sofocle nell’Elettra. Infatti anche ad Amleto è
ucciso il padre e re e la madre ha sposato l’assassino. Ma ciò che
per i poeti greci ha una legittimità etica, la morte di
Agamennone, acquista in Shakespeare soltanto la forma di un
crimine infame, di cui la madre di Amleto è innocente, cosicché
il figlio come vendicatore deve rivolgersi solo contro il re
fratricida, in cui non vede nulla che sia veramente da onorare. La
collisione vera e propria, perciò, non si svolge intorno al fatto
che il figlio con la sua vendetta etica deve violare l’eticità
stessa, ma intorno al carattere soggettivo di Amleto, la cui
nobile anima non è fatta per questo genere di attività energica e,
piena di disgusto per il mondo e la vita, sbattuta fra decisione,
prove e preparativi di esecuzione, viene a soccombere per la propria
esitazione e l’intreccio esterno delle circostanze.»
(G. W. F. Hegel, Estetica)
«L’atto è qualcosa di semplice,
di determinato e di universale, e dev’essere compreso come un tutto
astratto e distinto: è un assassinio, è un furto, un atto di
beneficenza o di coraggio, e tutto ciò che esso è può
essere detto. E’ così e così, e il suo
essere non è un semplice simbolo, è il fatto stesso. E’ questo,
e l’essere umano individuale è ciò che è
l’atto. Per il semplice fatto che l’atto è,
l’individuo è per gli altri ciò che è in realtà, e con una certa
natura generale, e cessa di essere solo qualcosa che si «intende» o
si «presume» essere in un certo modo. Senza dubbio egli non sta lì
come una forma della mente: ma quando viene posto in questione il
suo essere in quanto tale, e il suo duplice essere, forma corporea e
atti, viene visto contrapponendo l’una agli altri, ciascuno dei due
pretendendo il diritto di rappresentare la sua vera realtà, gli atti
da soli sono da ritenere il suo essere genuino, non
già la sua figura o forma, che può esprimere invece ciò che egli
«intende» con i suoi atti, o ciò che un altro potrebbe
«congetturare» che egli possa fare.
Allo stesso modo, d’altra parte,
quando la sua attività viene contrapposta alle sue possibilità,
capacità o intenzioni interiori, la prima da sola va
considerata come la sua vera realtà, anche nel caso che egli si
inganni in proposito e, dopo essersi volto dall’azione a se stesso,
intenda essere, nel suo «mondo interiore», qualcosa di diverso da
ciò che è stato nell’atto. Non c’è dubbio che l’individualità, che
si affida all’elemento oggettivo, corre il rischio di venire
alterata e stravolta quando si traduce in azione. Ma ciò che
definisce la natura dell’atto è appunto questo: se esso sia cioè una
cosa reale che sta insieme, o se invece esso sia soltanto
un’attività pretesa o «supposta», che in se stessa è nulla e vuota e
passeggera. L’oggettivazione non altera il fatto in sé, essa mostra
soltanto ciò che è l’atto, cioè mostra se l’atto
esiste o se invece esso è un nulla.
(G.W.F. Hegel,
Fenomenologia dello Spirito, 1807)
«Si comprende facilmente perché
l’azione, così caratterizzata da Hegel, sia tanto aborrita dallo
schizoide. L’atto è «semplice, determinato, universale…» ma l’io
dello schizoide vuole essere complesso, indeterminato e unico;
l’atto è ciò che ne «può essere detto» ma lo schizoide non deve mai
essere ciò che si può dire di lui, e deve rimanere sempre
inafferrabile, elusivo, trascendente.»
(R. D. Laing, L’io diviso,
Torino 1969)