"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 13, settembre 2007                                         

 

           n. 13 °*°  William Shakespeare: Spettro delle mie brame - fantasmi di Amleto °*° n. 13

 


 

 

82. G. W. F. Hegel

 

Sono ciò che sono? Sono ciò che faccio?

 

 


 

Sono ciò che sono? Sono ciò che faccio?

 

 

 

«Era beninteso l’età di Hegel che cominciava a leggere in Shakespeare il proprio soggettivismo, e ad esaltarlo ed esaltarsi in lui dandone una lettura fascinosa e infedele.»

(N. D’Agostino, Shakespeare e i greci, Roma 1994)

 

«Che poi noi si sia quello che ci manca, beh!, questo è un altro fatto…»

(CB in: U. Artioli – C. Bene, Un Dio assente, Milano 2006)

 

«La società non sa che farsene dei nostri pensieri: ma quello che resta…»

(M. de Montaigne, Saggi, vol. I, Milano 1986)

 

 

 

«…gli eroi tragici sono sia colpevoli che innocenti. (…) Essi sono ciò che sono e per sempre, e questa è la loro grandezza. Infatti la debolezza nell’azione consiste solo nella separazione del soggetto come tale dal suo contenuto, cosicché carattere, volontà e fine non appaiono concresciuti assolutamente in uno, e l’individuo, poiché per lui non vive nella sua anima nessun saldo fine come sostanza della sua individualità, come pathos e potenza di tutta la sua volontà, può essere ancora indeciso se svolgersi in una direzione o in un’altra e può operare la decisione a suo arbitrio. Questa incertezza ed indecisione sono lontane dalle figure plastiche; per esse il vincolo fra soggettività e contenuto della volontà resta indissolubile. Quel che li spinge a compiere i loro atti è appunto il pathos eticamente legittimo che essi fanno valere con patetica eloquenza, gli uni contro gli altri, non con la retorica soggettiva del cuore e la sofistica della passione, ma con quell’oggettività sia consistente che sviluppata, in cui per profondità, misura e bellezza plasticamente viva fu maestro soprattutto Sofocle. Ma al contempo il loro pathos pieno di collisioni li porta ad atti colpevoli, offensivi. Di questi atti però essi non vogliono essere innocenti; al contrario la loro gloria è avere realmente fatto ciò che hanno fatto. Ad un tale eroe non si potrebbe dire cosa peggiore che affermare che ha agito senza sua colpa. E’ il vanto dei grandi caratteri assumersi la colpa dei propri atti.»

 

(…)

 

«Per mettere in rilievo la differenza più precisa che a questo riguardo vi è tra la tragedia antica e quella moderna accennerò solo all’Amleto di Shakespeare, che ha a fondamento una collisione analoga a quella trattata da Eschilo nelle Coefore e di Sofocle nell’Elettra. Infatti anche ad Amleto è ucciso il padre e re e la madre ha sposato l’assassino. Ma ciò che per i poeti greci ha una legittimità etica, la morte di Agamennone, acquista in Shakespeare soltanto la forma di un crimine infame, di cui la madre di Amleto è innocente, cosicché il figlio come vendicatore deve rivolgersi solo contro il re fratricida, in cui non vede nulla che sia veramente da onorare. La collisione vera e propria, perciò, non si svolge intorno al fatto che il figlio con la sua vendetta etica deve violare l’eticità stessa, ma intorno al carattere soggettivo di Amleto, la cui nobile anima non è fatta per questo genere di attività energica e, piena di disgusto per il mondo e la vita, sbattuta fra decisione, prove e preparativi di esecuzione, viene a soccombere per la propria esitazione e l’intreccio esterno delle circostanze.»

(G. W. F. Hegel, Estetica)

 

 

«L’atto è qualcosa di semplice, di determinato e di universale, e dev’essere compreso come un tutto astratto e distinto: è un assassinio, è un furto, un atto di beneficenza o di coraggio, e tutto ciò che esso è può essere detto. E’ così e così, e il suo essere non è un semplice simbolo, è il fatto stesso. E’ questo, e l’essere umano individuale è ciò che è l’atto. Per il semplice fatto che l’atto è, l’individuo è per gli altri ciò che è in realtà, e con una certa natura generale, e cessa di essere solo qualcosa che si «intende» o si «presume» essere in un certo modo. Senza dubbio egli non sta lì come una forma della mente: ma quando viene posto in questione il suo essere in quanto tale, e il suo duplice essere, forma corporea e atti, viene visto contrapponendo l’una agli altri, ciascuno dei due pretendendo il diritto di rappresentare la sua vera realtà, gli atti da soli sono da ritenere il suo essere genuino, non già la sua figura o forma, che può esprimere invece ciò che egli «intende» con i suoi atti, o ciò che un altro potrebbe «congetturare» che egli possa fare.

 

Allo stesso modo, d’altra parte, quando la sua attività viene contrapposta alle sue possibilità, capacità o intenzioni interiori, la prima da sola va considerata come la sua vera realtà, anche nel caso che egli si inganni in proposito e, dopo essersi volto dall’azione a se stesso, intenda essere, nel suo «mondo interiore», qualcosa di diverso da ciò che è stato nell’atto. Non c’è dubbio che l’individualità, che si affida all’elemento oggettivo, corre il rischio di venire alterata e stravolta quando si traduce in azione. Ma ciò che definisce la natura dell’atto è appunto questo: se esso sia cioè una cosa reale che sta insieme, o se invece esso sia soltanto un’attività pretesa o «supposta», che in se stessa è nulla e vuota e passeggera. L’oggettivazione non altera il fatto in sé, essa mostra soltanto ciò che è l’atto, cioè mostra se l’atto esiste o se invece esso è un nulla.

(G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, 1807)

 

«Si comprende facilmente perché l’azione, così caratterizzata da Hegel, sia tanto aborrita dallo schizoide. L’atto è «semplice, determinato, universale…» ma l’io dello schizoide vuole essere complesso, indeterminato e unico; l’atto è ciò che ne «può essere detto» ma lo schizoide non deve mai essere ciò che si può dire di lui, e deve rimanere sempre inafferrabile, elusivo, trascendente.»

(R. D. Laing, L’io diviso, Torino 1969)


 

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