«Impazzita,
recitava quella stessa parte che lui, nella scena del convento, aveva
proiettato su di lei: la puttana disponibile.»
(R. CAVE,
Recenti messe in scena dell’Amleto in Inghilterra, in
Tradurre/Interpretare “Amleto”, Bologna 2002)
«E’ strano che
un morente canti.»
(Re Giovanni,
Atto V, sc. 7)
Se Amleto è l’anello debole della
dinastia, Ofelia è l’anello debolissimo dell’Amleto…
detta così potrebbe pensarsi a una specie di Amleto Buddenbrook…
una saga che accoppia consapevolezza e decadenza, come del resto già
nei celebri cicli e ricicli di Vico: se avessero mai fatto un
piccino, che estenuati grilli bizantini avrebbe avuto per la testa?
Il colpo d’ala di Ofelia, fuori dal
carcere e verso se stessa, è la follia oscena e la morte canterina. Ci
opponiamo alla visione del tutto irrimediabilmente ochesca che da
Gadda della
fanciulla: se impazzisce, tanto scema non può essere. Non solo: se c’è
del senno nella simulata pazzia di Amleto, qualcosa forse ancora di
più abissale in quella di Ofelia! Così l’annuncia l’anonimo Signore,
convincendo la Regina riottosa a vederla:
Il suo linguaggio è nulla, e
tuttavia il suo uso informe
muove gli ascoltatori a fare
congetture.
Ne restano sbigottiti e
rattoppano le parole
perché si adattino ai loro stessi
pensieri;
parole che, per come sono rese
dai suoi ammicchi
e cenni e gesti, davvero
farebbero pensare
che ci possa essere pensiero,
per quanto niente
di sicuro, ma comunque molto
infelice.
(Atto IV, sc. 5)
Altro che
un’oca. L’avvertenza fa
intuire esegesi da poesia moderna: i firulì firulà di Ofelia come
striscioline verbali di un Mallarmé letto da Lacan… -
Dopo che la non più sicuramente vergine ha canterellato filastrocche
(«…entrò la vergine, che mai più vergine di fuori uscì… Dice
la tosa: mi volevi sposa prima di stendermi col dorso in posa…»,
Atto IV, sc. 5), dice qualcosa d’intelligente perfino Laerte:
«Questo nulla di senno è più che senno comune… una lezione pur nella
pazzia…» (Ibid.), commento identico a quello
celebre di papà Polonio sulla follia di Amleto («C’è del metodo nella
sua follia», Atto II, sc.2).
Gli adulti spiegano a sé i giovani,
e li perdono. Come Polonio non resisteva a fare il
patologo
riduzionista sulla follia
del principe, ora, defunto lui, il Re direttamente corre a ridurre la
follia di Ofelia a uno: «Oh, questo è il veleno di un affanno
profondo; deriva tutto dalla morte di suo padre…» (Atto IV, sc. 5).
A riprova di quanto facilmente le risposte siano la forma peggiore
d’oblio delle domande.
Tra Amleto e Ofelia, alla fine, la
stessa distanza che sappiamo tra il dire e il fare: «Se Amleto ha
finto di essere pazzo, Ofelia pazza c’è diventata. Se lui ha flirtato
col suicidio, lei lo ha messo in atto. Per una specie di fedeltà di
natura alle parole? alla lingua? per una specie di ingenua relazione
alla verità? perché è innocente? e chi è innocente non finge?» (N.
Fusini, Donne fatali, Roma 2005)
Alla fine, tutt’e due lasciano fare,
lasciano che l’inevitabile sia come se fosse la storia di un altro:
una storia, dunque, fatale. Amleto si lascia cadere come il passero
dall’albero («Lascia che sia», Atto V, sc. 2); Ofelia, in
un’ordalia di sé straniata e manchevole dello stesso soggetto, lascia
che faccia il fiume: «come una che non sa quale rischio la tenga»
(Atto IV, sc. 7).