Amleto - Se ti sposi, ti darò questa piaga per dote: sii
casta come il ghiaccio…
(Atto III, sc. 1)
Purtroppo per lei, quando Amleto
parla a Ofelia è quasi sempre perché la mancata suocera, mamma di
Amleto, intenda: alle due donne della tragedia è tutt’un dar della
puttana e ripetere non fornicare non fornicare. Ofelia diventa
per questo dissestato misogino, moralista per regressione tragicamente
indotta, un emblema dell’universal tipo della Femmina Incorreggibile:
infoiata, fatale, perniciosamente fertile. Così Amleto è un Otello
furioso che ragiona come Jago;
«più che Romeo, Amleto è Mercuzio»
(N. Fusini, Donne fatali, Roma 2005). Peccato, dunque,
che abbia Ofelia, che sia dentro l’amore. Così, «nulla di
quanto accade nella tragedia Amleto offre all’amore qualcosa
più di un nome offeso» (H. Bloom, Shakespeare, Milano 2003).
Lo Spettro ha castrato Amleto, ma
con non casuale imperfezione: invece della pace dei sensi, gli ha
lasciato tutte le ustioni e le acidità di un puritano feroce, di un
maniaco mancato. Non sa pensare alla madre senza allucinare un porno,
e non sa trattenersi in gola i particolari di quanto allucina.
Impotente e pornolalico. - Prima della spettrale castrazione isterica
(Lo Spettro: «Addio, addio, ricordati di me!», Atto I, sc. 5),
non doveva essere stato così. La follia lubrica di Ofelia che prima di
morire si s-puttana, fa presumere un Amleto libertino e
spregiudicato come si deve, e giustifica i predicozzi in loop
di Laerte e Polonio sulla sua
– direbbe un papa –
non negoziabile virtù.
Raccomandazioni politiche sul perché
non darla al principe ormai pleonastiche: come il rimorso ha ucciso il
sonno di Macbeth, lo Spettro ha ucciso ad Amleto la speranza, quindi
il desiderio. «La speranza è il sogno dell’uomo sveglio» (Gregorio
di Nazianzo), e Amleto è ormai troppo sveglio per ogni sogno
possibile: senza speranza come restare innamorato? «Io vi ho
amato, un tempo» (Atto III, sc. 1) è la frase più onesta che
qualcuno dica a qualcun altro in tutta la tragedia.
Ciò che era non può essere più:
quindi niente può essere più niente. E’ un pensiero inconfutabile. Per
salvàrsene, si può solo provare a saltare fuori da lui, evitando ogni
contesa nel merito: lui è infatti troppo più forte. Educare il
depresso a non pensare, a de-pensare la sua filosofia depressiva, a
dis-trarsi, a trarsi via da sé: da quel pensiero che forse non è
neppure lui “sé”… - Imitare nella pratica Kierkegaard che passa
dall’evidenza del niente alla fede in Dio non per plumbee
dimostrazioni tomistiche (addirittura cinque!), ma saltandoci dentro.
– Lo stesso nella speranza, per la quale non c’è che un cambio di
discorso, di aria, di gioco: vedi l’Amleto di Laforgue.
La realtà di per sé non è niente,
questo Amleto lo dice in tutte le salse, ed anche questo, tanto più a
vent’anni e mens sana in corpore sano, è “vero”. - Non è nella realtà
che si trovi alcunché di salvifico, salvifico poi di cosa:
«terrificante esperienza del non-poter-più-sperare, e cioè della
frattura della speranza come orizzonte di trascendenza» (E. Borgna,
La malinconia come metamorfosi della speranza, in «Freniatria», n. CI,
1, 1977).
Ofelia quando capirà a lei tutto
questo, avrà la purezza e la coerenza di morirne. Morirne perché per
lei la speranza era davvero qualcosa: «OFELIA – Mi sono uccisa,
ma non mi sono uccisa, ho voluto morire, ma non era la morte quel che
volevo, mi sono accarezzata fino a morire, non c’è stata ira né
disperazione, oh no, mi sono avvelenata di speranza» (G.
Manganelli, High tea, in Tragedie da leggere, Torino
2005).