Il primo vero incondizionato amante di Shakespeare fu
Stendhal, che nell’estate
del 1822 assistette a un famigerato Othello al Théâtre
de la Porte-Saint-Martin in cui una compagnia di attori inglesi
venne fischiata da focosi giovanotti liberali persino al grido
«Abbasso Shakespeare! Aiutante in campo del duca di Wellington!»
(Ricordi d’egotismo). Indignato e paterno verso quella
ideologica gioventù,
),
ma più in generale animato da una drastica «carica di aggressività
demolitrice» (M. Colesanti, intr. a Stendhal, Racine e
Shakespeare, Palermo 1980),
scrisse due pamphlets dallo stesso titolo: Racine e
Shakespeare. Il primo nel 1823
«messo insieme come capitava» (M. Crouzet, Stendhal. Il signor
Me stesso, Roma1990), il secondo nel 1825 (giusto gli
anni di
De l’Amour). «Se ne parlò: fu un successo di stima
che impose immediatamente, per il pubblico ristretto di tutti coloro
che si interrogavano sulla famosa riforma-rivoluzione letteraria, il
nome totalmente sconosciuto di “Stendhal”» (Ibid.).
Il Teatro di Clara Gazùl dell’amico Merimée dà i primi
esiti felici. L’11 settembre 1824 esce il primo numero del
Globe: vi scrivono tra gli altri Hugo, Vigny, Deschamps,
Sainte-Beuve. Vi leggi un bellissimo principio di come dovrebbe
essere il lavoro di un critico: «Il dovere della critica non è
quello di interdire, ma di provocare i tentativi (…) perché sono i
tentativi felici che gli danno le regole; essa non stabilisce la
legge che a posteriori. Il tempo delle imitazioni è passato. Bisogna
creare oppure tradurre» (Duvergier de Hauranne, Du
Romanticisme, in Le Globe, Paris 24 mars 1825).
Fondamentale in questa battaglia, che non è semplicemente di
articoli di giornale ma soprattutto di gestione dei teatri, la
figura del barone Taylor, già fondatore con Alaux del
Panorama Dramatique, dal 9 luglio 1825 dirige la Comédie
Française, che si apre al teatro spettacolare del melodramma. Il 27
novembre 1825 debutta il Léonidas di Pichat, Talma
protagonista. Grande successo. Il 19 ottobre 1826 però Talma
muore, e ai funerali partecipa una folla di 20.000 persone.
Quando, nel settembre del 1827, una compagnia di attori
inglesi viene a recitare Shakespeare, a differenza di cinque anni
prima, è un trionfo: «In Francia l’attore muore molto decentemente;
l’eroe si colpisce e grida: “Io spiro!” In Inghilterra l’eroe si
colpisce o è colpito e impiega un quarto d’ora a morire. Prima di
spirare ci regala tutto ciò che c’è di più penoso nella natura. Lo
vediamo con il tetano, il rantolo dell’agonia e il
riso sardonico» (A. Duval, Preface de Charles II, cit. in
M. Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma
1992).
Fu tale il successo, che la compagnia, invece di fermarsi a Parigi i
tre mesi previsti, vi rimase quasi un anno, e fu così che i parigini
conobbero i grandi: Miss Smithson, Kemble, Macready, Kean (sia
Macready che Kemble in Hamlet).
Victor Hugo, già
enfant sublime della letteratura nazionale (Chateaubriand)
si vede capace di assurgere a Shakespeare nazionale: leggi la
Préface al suo Cromwell, dove, accanto all’idea di un
teatro pieno di “natura e verità”, vitale e libero, proclama la
necessità di scrivere in versi, «con argomenti non molto dissimili
da quelli di
Schlegel»
(M. Fazio, Il mito di Shakespeare e il teatro romantico, Roma
1992). La Prefazione al Cromwell – dramma di fatto
irrappresentabile per l’eccesso di personaggi e di cambi di scena -
diventa subito il vangelo dei romantici.