Il successo a teatro di Victor Hugo, come quello di Dumas
padre, durò una decina d’anni. Poi, nel 1843, per Hugo ci
fu il fiasco terrificante de Les Burgraves. Hugo, da
due anni membro della Académie, scriverà per teatro testi senza
teatro, a priori irrapprensentabili, da pubblicare postumi nel
Théâtre en liberté.
Molto tempo dopo, in Shakespeare (1864) leggi:
«Shakespeare è la fertilità, la forza, l’esuberanza, la mammella
gonfia, la coppa spumeggiante, il tino pieno fino all’orlo, la linfa
in eccesso, la lava a torrenti, i germi in vortici, l’abbondante
pioggia di vita», ecc. vincendo alla grande la gara per l’iperbole
più iperbolica. Ed esce la traduzione dell’omnia di Shakespeare alla
quale aveva lavorato il figlio di Hugo per dodici anni, «fedele dal
punto di vista filologico, creativa dal punto di vista critico e
storico», «quest’accrescimento dispiace a coloro cui giova», «senza
eludere nulla, senza omettere nulla, senza smorzare nulla, senza
nascondere nulla, senza mettergli il velo là dove è nudo, senza
mettergli una maschera dove è sincero, senza vestire la sua pelle
per poi mentire…». Così scrive Victor Hugo nella prefazione, e la
scommessa è che varrà quanto la versione di
Schlegel in Germania. Ma non fu
così.