Céline
“Non ha ancora finito? Céline,
lei mi
deve milioni!... non lo
dimentichi!”
(F. CÉLINE,
Nord)
Sul
lettore, il graffio di veleno definitivo l’incise Baudelaire
alla fine del primo dei Fiori
del male, atroce sberleffo dedicatorio al simile-fratello-ipocrita, il quale dall’altra parte dello specchio
sta in silenzio a compitare alessandrini sul Diavolo che gli abiterebbe
i budelli. Magari invece leggiucchia con la tivù accesa e
sgranocchiando cipster, coinvolto dal dandy libertino come un re da un
giullare quel giorno non troppo in vena.
Céline
dell’insulto baudelairiano si ricorda in Nord
(1960), dove non
c’è più la relazione sadica (ma ancora intima e oseremo dire
salottiera) che il fantomatico lettore dei Fiori ha con il libro, ma una
baraonda ospedaliera, e un carnaio da fiera: l’autore
è al centro dell’assalto di lettori, imponderabilmente plurali,
esigenti e già stufi, padroni soprattutto del soldo, della scelta del
comprare o meno il libro faticosamente scritto... Viene in mente anche Sterne,
che però è ironico e amabile, e più disposto a subire lo sberleffo
che viene all’attore
dalla platea necessaria:
“...venda
i suoi rancori e stia zitto”!... caspita, ci sto!... mi piacerebbe, ma
a chi?... i compratori mi fanno il grugno, pare... gli piacciono e
comprano solo che gli autori fatti quasi come loro, con giusto in più
il piccolo bordo a colore... caporuffiano, caponettaculo, leccacoso,
evasioni, acquasantiere, pali, bidè, ghigliottine, imballi... che il
lettore ci si ritrovi, si senta simile, fratello, molto comprensivo,
pronto a tutto...” (F. CÉLINE,
Nord)
Messi
così tutti insieme, i lettori fanno mica un idillio casto e
confortevole come nel Se
una notte d’inverno di Calvino:
sono massa, pubblico, clientela:
bulimici e avari compratori di merce, che alla fin fine poi è sempre la
stessa: consolazione e dimenticanza. Mica diversi, di come sono quando
s’assiepano, da pazienti, nella sala d’attesa d’un medico,
sempre più stremato dal loro bisogno di balle, dalla richiesta
arrogante di almeno una teatrale efficienza, di placebi retorici e
carismatico glamour, di rassicurazioni apotropaiche, di ridicole
trappole taumaturgiche...
L’editore,
che la merce céliniana vende,
e che cerca sempre l’affare, è costretto a pensare che il
cliente abbia sempre ragione. Questione mica di estetica, ma di vita o
di morte:
Soprattutto niente
filosofia! niente chiose intelligenti! attento! ne ho piene le
cantine!... ci sbatto nella senna!... dei capannoni pieni, convogli di
zattere, tonnellate a migliaia di “fini annotazioni”! a proposito di
tutto! in manoscritto e a stampa, intelligentissime! perfino sadiche,
sferzanti, al sangue! specie insipide, Céline!.... il suo “non-ha-più-l’età”
mi ha fatto piacere, ma i miei “invenduti” ci pensa lei?... Sisifo a
tirar su sta mercanzia, farle passare la cresta atroce, che ruzzoli
schiacci i lettori, sti mostri ruttanti, mi ricada mica ancora sul
gobbo! (Ib.)
Siamo
alla pantomima: scrittore-editore come servo e padrone (lo stesso gioco
nel Manganelli postumo dell’Encomio del
tiranno) che fa di un contratto, nel caso di Céline
accuratamente ponderato (sui rapporti di Céline
con Denoël e poi con Gallimard,
vedi Ph.
Alméras nel suo Céline),
una catastrofe eroicomica.
E
l’essenziale è proprio in questo: l’editore, quest’uomo reso
paradossale “da tutto quello che legge, che si crede in dovere di
leggere”, di quei lettori tanto bisognosi di coccole aulenti, è il
sicario necessario. Da qui una guerra infinita:
Me
ne strasbatto di cosa possa pensare l’editore dei miei libri - non è
neppure questione di chiedere il suo parere - Non può che avere del
cattivo gusto - altrimenti non farebbe questo mestiere a metà tra il
droghiere e il magnaccia.
(...)
“Ma lì si ferma
la competenza degli editori: nell’estrema mediocrità, per la buona
ragione che un essere umano non può esorbitare dalla propria area
psichica... tutto quello che va oltre, lo detesta... come la scimmia che
tende a massacrare tutto ciò che non capisce... immediatamente! Così
il critico e così l’editore - Quel che vuole il coglione è uno
specchio per la sua anima di coglione dove possa ammirarsi...Donde il
cinema e i romanzi a tiratura infinita, “specchi d’anima per il più
gran numero possibile di coglioni.
(F. CÉLINE, Lettere dall’esilio. Lettere a Milton Hindus, 1947-49)