"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 9 dicembre 2004

 

 

Cechov, Céline, Bulgakof, Benn: I medicamenta del dottor Scrittura


 

 

6.  Mentire 

 

 

 


 

“...fibroma?... cancro?... non volevo metterla al 

corrente... ah, la mia fottuta delicatezza!...”

(F. CÉLINE, Da  castello all’altro)

 

La conoscenza è un bel sistema per andare a picco.”

(G. BENN, Doppia vita, 26)

 

“il malato non vuole veramente sapere, bensì ubbidire”

(K. JASPERS, Il medico nell’età della tecnica)

 

 

Se “la Verità è la Morte” (F. CÉLINE, Il dottor Semmelweis), le bugie saranno medicine più indispensabili degli antibiotici! – Il dottor Céline su questo punto torna spesso e senza mai un dubbio: “E dove andare altrove, vi chiedo io, quando non s’ha più in sé la somma sufficiente di delirio? La verità è un’agonia che non finisce mai. La verità di questo mondo è la morte. Bisogna scegliere: morire o mentire.” (F. CÉLINE, Viaggio al fondo della notte). - Quindi, per carità, mentire! 

 

Il dottor Benn concorda e rilancia, vedendovi la conferma di un destino essenziale: “Tutti i grandi popoli bianchi, non c’è dubbio, hanno sentito quell’unico compito interiore: dissimulare creativamente il proprio nichilismo” (G. BENN, Romanzo del fenotipo)

Che la verità sia la morte (“Io la odio”: M. BULGAKOV, Appunti di un giovane medico) già nel Viaggio Céline lo dice almeno un paio di volte. E, a consuntivo d’una vita scombiccherata, ritrovi il refrain per esempio in Guignol’s Band II:

 

La Verità è la morte!... Io ci ho lottato come si conviene, finché ho potuto... l’ho mazurcata, tantgata, imbaldoriata, rimpolpata parecchio e anche di più!... agghindata, impepata con la farandola trallallero... Ahimè! So bene che tutto si sfascia, cede, molla a un certo punto... So bene che un giorno la mano cade, ricade, lungo il corpo...

 

Sì, sì. 

Sapienze e contemplazioni adatte però solo a un pubblico adulto, roba da dopo mezzanotte e giusto per un anacoretico target di nicchia; mentre il dottore deve essere ecolàlico ed ecumènico, avendo a che fare quasi sempre con malati allarmati, in ambasce ed egocentrici: “Nessuno vuole sentirsi dire che i suoi piedi piatti e le sue adenoidi non possono pretendere tutta l’attenzione delle forze cosmiche...” (G. BENN, Pietra, verso, flauto).

 

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Ai pazienti - file interminabili di Ivan Il’ic! - niente di peggio da dire che pane al pane (“conosco, ahimè! le sottigliezze d’ambasciate, grottesche balordaggini a fronte di ciò che ti ci vuole, perché la tua vecchia cancerosa non ti mandi a farti fottere!...”: F. CÉLINE, Da un castello all’altro). Molto meglio la balla cardiotonica, da usare perfino se si visita un collega, regredito però nel terrore a causa della prostata ingrossata (“Perfetto, Collega! perfetto!”: Ib.).

 

E mentire si dovrà fino alla fine. 

Barcamenandosi a cavallo di un confine impalpabile tra ipocrisia e saggezza. Prendiamola allora dal lato più nobile: dal Bagavadgita a Carl Gustav Jung (Sogni, ricordi, riflessioni) si avrà cura di non aggiungere al caos del mondo una verità insostenibile che aumenterebbe solo dolore ed entropia. Pazienza poi se non sarà sempre per motivi così puri che il medico parlerà al malato per “abbeverarlo di mal fondate speranze (D. BARTOLI, L’uomo al punto):

 

Era consuetudine dell’istituto rimandare alle famiglie, senza svelare il loro stato, i casi disperati, per le molte complicazioni burocratiche e per la sporcizia che la morte porta con sé. Rönne si avvicinò a uno di questi e lo esaminò: davanti il taglio, dietro le pieghe da decubito, in mezzo un po' di carne frolla; si congratulò con lui per il successo della cura e rimase a osservarlo mentre si trascinava via.

 (G. BENN, Cervelli)

 

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“Se l’infermo non ha mal mortale, ditegli per suo bene, che sanerà: se mortalmente n’è gravato, per interesse nostro, ditegli che sanerà; per ogni maniera confortatelo a credere che sanerà. Questa è la parte ch’avvien talvolta di darsi a recitare il medico.” 

(D. BARTOLI, L’uomo al punto)

 

Le bugie furbe e le diagnosi dorotee non funzionano solo nel caso di rari tipi disincantatissimi, come il morente medico čechoviano di Una storia noiosa, il quale conosce troppo bene il cerimoniale per cascarci (“E subito mi immagino un collega che, dopo avermi auscultato, va in silenzio verso la finestra, riflette un po’, poi si volta verso di me e, sforzandosi di non farmi leggere la verità sul suo viso, dice con tono indifferente...”).

 

La retorica del mentire medico, del resto, non è neppure troppo imprevedibile: eufemismi, perifrasi, dubitative, ipotetiche, litoti, tautologie, ottativi…  Tutte figure di allontanamento, addobbi per unattesa, esorcismi spesso più del malato che della malattia. - Rispetto a questi giri di pensieri, tutti accuratamente sospesi, saltare nella letteratura sarà come per Alice sprofondare nell’abisso del chissà dove.

In questo salto, per il dottor Čechov, c’è la differenza tra scrivere La signora col cagnolino e curare un sarcoma: la medicina deve avere dalla sua certi trucchi, la letteratura no.

 

Col dottor Čechov si capovolge così il luogo comune che siano scienziati seriosi come i medici quelli che te la contano giusta, mentre i precari poeti parlerebbero sì e no di sogni ai fiorellini. - Errore non casuale, del resto, che preserva alla parola medica il suo potere di potentissimo tra tutti i placebi! Meglio della morfina sarà, infatti, sempre una speranza autorizzata da un consulto. E i pazienti non chiedono altro che speranza, pietà... - Lussi e chimere di cui giusto la letteratura può liberarsi in un lampo, anche se per arrivare a visioni che son mica poi sempre da urlo: “E’ un panorama la vita! Ti visioni dentro... che scenari!...” (F. CÉLINE, Pantomima per un’altra volta).

 

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Il Céline più drastico sulla sorte mentecatta che attende la Verità in questo mondo di furbastri e assassinî è forse quello del bellissimo Hommage à Zola (4 ottobre 1933, ora in. F. CÉLINE, Céline e l'attualità letteraria). Da ciò, nel suo caso, come del resto per Benn, un diritto naturale al dimenticarsi e al delirio, diritto senza il quale dell’uomo non si capisce niente: poiché la verità è la morte, l’uomo “corregge la lucidità dei suoi pensieri con l’alcool e la pappata, poi il viaggio, l’automobile, tutte le invenzioni per eludere la lucidità… L’uomo non è lucido. Va nelle accademie, a teatro. Gli rimescolano la testa, tutto il contrario di quanto si cerca di fare nei monasteri…” (F. CÉLINE, Lettera a Paul Lévy, 20 luglio 1951).

Anche per il dottor Benn, il più nietzschiano, è abbastanza evidente che, se si parla, si mente; e non solo perché, come ormai da un bel po’ anche l’epistemologia ci insegna, “ogni sapere è solo un errore tra due errori e un preambolo a eterni preamboli” (G. BENN, Sotto la corteccia cerebrale, in “Adelphiana” n. 3), ma soprattutto perché sempre “chi crede che con le parole si possa mentire potrebbe pensare che qui ciò avvenga. Ovunque io guardi, c'è bisogno di una parola per vivere” (G. BENN, Cervelli).

 


 

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