"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 9 dicembre 2004

 

 

Cechov, Céline, Bulgakof, Benn: I medicamenta del dottor Scrittura


 

 

13.  Sempre se 

 

 

 


 

“Nascere  e morire è la stessa cosa;

mescolarsi e separarsi è la stessa cosa;

nascere e mescolarsi è la stessa cosa;

perire, decrescere, separarsi è la stessa cosa.”

(IPPOCRATE, Trattato delle malattie acute)

 

Morte: “una fine apparente che produce un dolore reale.” 

(F. KAFKA, Diari)

 

Sempre se. - E cioè: sempre se la vita sia comunque un bene. 

Chiudeva una frase dubitando Céline già prima di diventare Céline: “...perlomeno, se ci si basa sulla preoccupazione che paiono avere gli uomini di non soffrire e di godere piacevolmente della vita” (F. CÉLINE, Il dottor Semmelweis).

Sia Céline che Čhecov che Benn (di Bulgakov ci dev’essere sfuggito qualcosa? O era proprio d’un’altra pasta? I pensieri su Dio farebbero pensare di sì) lasciano questo se terribile così com’è: praticamente a sé.

Caso mai aggravandolo d’un perché:

 

Perché poi, impedire alla gente di morire, se la morte è la fine normale e giusta di ciascuno? Cosa ce ne viene, se un commerciante o un funzionario vive cinque, dieci anni in più? Se il fine della medicina è che i medicamenti alleviano le sofferenze, sorge spontaneamente la domanda: perché alleviarle? 

(A. ČHECOV, La corsia n. 6).

 

Né, restando a Čhecov, nelle lettere trovi cose diverse: “Quando sono serio, ho l’impressione che coloro che hanno paura della morte non siano logici. Per quanto capisco l’ordine naturale delle cose, la vita consiste unicamente di orrori, di pettegolezzi e di volgarità che si alternano e si susseguono…” (A. ČHECOV, lettera a Màrja V. Kiselëa, 29 settembre 1886)

Dunque? - Intanto, vai col Blob!

 

“Ondate incessanti di esseri inutili vengono dal fondo delle età a morire continuamente dinanzi a noi, eppure si rimane là a sperare tante cose… Incapaci persino di pensare a quella morte che noi stessi si è”  (F. CÉLINE, Viaggio al fondo della notte).

 

In un mondo in cui accadevano cose tanto mostruose, che poggiava su principi tanto mostruosi, come la ricerca più recente era impegnata a dimostrare, non faceva proprio alcuna differenza che un paio di uomini vivessero un paio di giorni più a lungo o dormissero un paio di notti in più: la si smettesse una buona volta con tutte queste ciance astruse sulla vita e la felicità. Non era certo il caso di discuterne. La materia era radiazione e la divinità silenzio, quel che stava nel mezzo, una bazzecola. Cani impagliati le creature per l’aldilà, e lo spazio fra cielo e terra cavo come un flauto, ma la Grande Muraglia reggeva ancora bene e il loess era più eterno dei Ming: - questo mi pareva indicare il primato dell’amorfo.

(G. BENN, Il romanzo del fenotipo)

 

A differenza di certe vulgate molto da stereotipo televisivo, una certa serafica indifferenza al prolungamento della propria non sempre personalissima esistenza, può essere che venga ad abitarci proprio dopo un grave pericolo di morte appena scampato: “Ma per Ol’ga Michajlovna era già tutto indifferente. In testa aveva la nebbia per il cloroformio, nel cuore sentiva un vuoto... Quella stessa ottusa indifferenza che aveva provato quando i dottori la stavano operando non l’aveva ancora abbandonata” (A. ČHECOV, L’onomastico)

Dirà lo stesso di sé in mezza riga Paul Valéry: “Je suis foutu et je n’en fous”.

 

Dunque? - “Il buon medico non deve fermarsi al Bene come Vita e Salute e al Male come Morte e Malattia, perché in questo orizzonte troppo professionale la sua vita morale resta soffocata. Se la sua vita morale non è sufficientemente larga, non potrà veramente capire vita-salute-morte-malattia, e non consolerà mai in modo adeguato i suoi malati. Nell’azione dovrà sempre restare dentro quello schema; ma averlo nel pensiero rotto e mescolato, perché l’azione sia morbida e leggera, non monotona e non servile” (G. CERONETTI, Il silenzio del corpo).

 


 

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