"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 9, dicembre 2004                                         


Ogni scrittore, come ogni persona, ha le sue stelle d’orientamento, e a sua volta è stella (danzante?) per altri. 

Proviamo a segnalarne qualcuna

 

Cechov, Céline, Bulgakof, Benn: I medicamenta del dottor Scrittura 

 


 

 

17. Petrarca & Molière

 

 

 

 


 

“…che si dovrebbe fare quando si è ammalati?”

“Nulla.”

(MOLIÈRE, Il Malato immaginario)

 

1.

Per la scienza che sa contare i peli sulla faccia del leone e le gobbe delle nostre budella, la domanda costante di Petrarca è la stessa di Cary Grant ad Ann Sheridan, brava a guidare una moto stando in piedi sul sellino (Ero uno sposo di guerra, Howard Hawks, 1949): “A che serve?” 

 

“A che serve, io domando, conoscere la natura delle belve e degli uccelli e dei pesci e dei serpenti, e ignorare e trascurare la nostra natura di uomini e lo scopo per il quale siamo nati, e dove siamo diretti?” (F. PETRARCA, De sui ipsius et multorum ignorantia).

 

Anche se sembra Čechov, sette secoli non passano invano. Ormai sappiamo che, quando la risposta è un assordante silenzio, e proprio come chiedere alla Luna che ci faccia in ciel: l’errore è nella domanda. 

Consoliàmocene: la probità congelante imposta da epistemologie ormai secolari sul cosa alla Signora Scienza - e alla Luna - si possa chiedere e cosa no, avrà aumentato le nevrosi, rendendoci in compenso filosoficamente un po’ meno impresentabili (e sempre così quando un galateo incombe come un Super-Io eccessivo: non si toccherà più nemmeno un crostino, ma risparmiandosi almeno le figure peggiori!).

 

Ecco. 

Rispetto a queste wittgensteiniane ovvietà, Petrarca è talmente più indietro, che con certi discorsi potrebbe vincere le elezioni in un Paese a piacere tra Oriente e Occidente: intanto perché, proprio lui che sapeva tutto, si ostinava nella ciancia che essere buoni sia più importante che essere sapienti! - Da ciò l’assioma perfino adesso assai diffuso (malgrado bulimie irrefrenabili per palmari satelliti e cellulari!), che una scienza eticamente scapestrata sia quanto di peggio ci si possa augurare.

 

Quanto alla medicina vera e propria, le domande insolenti e insolute sono almeno un paio. In Petrarca le leggi sia nelle Invective contra medicum che nel De sui ipsius et multorum ignorantia, ma torneranno puntuali nelle lancinanze metafisiche sia di Benn che di Bulgakov, Čechov e Céline

 

- perché curare l’uomo se non lo si ama?… 

-    e, posto anche che lo si ami infinitamente, perché dannarsi

tanto per la cura del suo corpo sempre più cadente, quando si tratta comunque di prolungare qualcosa che non dura

Che poi, insisterà sarcastico Molière (che sulla medicina, malgrado i secoli, fa con Petrarca un tandem perfetto), almeno ci riuscisse!… 

 

°*°*°

 

2.

 

Tra il 1351 e il 1352, papa Clemente VI si ammalò; Petrarca gli offrì allora un consiglio che troveremo identico sia nel Malato immaginario che nelle lettere del dottor Čechov: per non aggiungere. a quella che già ti ha preso,  la “malattia dei medici” (MOLIÈRE, Il malato immaginario, Atto III, sc. IV), scegliti un medico solo! èvita la babele delle cento diagnosi, négati al labirinto dei mille rimedi, schiva la prosopopea incomprensibile dei consulti! 

 

In quella lettera del 12 marzo del 1352 (Familiares, V, 19), può darsi che la cosa gli abbia preso la mano. Vi ritroviamo infatti espressioni sui medicastri perfino simili a certe idee che l’italico guardasigilli attuale, Castelli, nutre verso i magistrati che pur amministra! Petrarca infatti scrive che i medici son gente oscenamente libera: al punto da poter accoppare i pazienti senza pagarne mai le conseguenze. – Soprattutto, che faccia bene o male, il medico è per lo più un rètore, dispensatore di chiacchiere al posto di rimedi. 

 

Molière si nutrirà di identiche evidenze e dello stesso senso comune (siamo del resto in tempi ancora senza “progresso”: ancora niente microscopi, né vaccini, né una chirurgia plausibile): “Tutta l’eccellenza dell’arte loro consiste in un pomposo gergo, in un cicaleccio, che vi dà parole per ragioni, e promesse per fatti” (Il Malato immaginario, Atto III, sc.III): se la cura funziona è un caso, “dato che tutta la loro scienza non è che fumo negli occhi” (Don Giovanni, Atto III, sc. 1). Se invece i medici sbagliano, a differenza di un calzolaio, che “quando fa un paio di scarpe, non potrebbe rovinar un pezzo di cuoio senza pagarne le spese”, possono “rovinar un uomo senza rimetterci nulla”, essendo “il torto è sempre di chi muore” (Il medico per forza).

 

°*°*°

 

3.

 

Contro la lettera a papa Clemente VI di Petrarca, poeta forse in farnetico?, uno dei medici della corte di Avignone corse a rispondere punto per punto: accusandolo perfino – venticelli di calunnia! – d’essere un negromante. 

Solo e pensoso solo quando si trattava del fantasma di Laura e delle sue pre-amletiche e immedicabili paludi d’accidia, Petrarca non si tirò indietro. 

 

Scrisse così le quattro Invective contro una medicina riconosciuta, tutt’al più, come arte – almeno metafisicamente intendendo – di bazzecole: come cura, per di più incerta, per i vomiti e le diarree scombiccheratrici di quel sacco sostanzialmente osceno che è un corpo (“pertusus sacculus” è una delle centinaia di definizioni senza scampo offerte all’amico Lombardo della Seta, dottore…). 

 

Tra purghe e clisteri, feci esaminate a naso e orine scrutate in controluce, siamo in un mondo che non ha niente a che fare con la poesia, lei sì cataplasma platonico autentico, farmaco perenne del Tempo canceroso e distruttore di tutto (“habet com tempore et cum oblivione certamen”)… E’ una cura tanto ardua che, a confronto d’una pletora – pandemìa? - di dottori, non vi sarà mai più d’un gruppuscolo, infimo ed eccelso, di poeti (“Videbis poetas raros…”).

 

Quindici anni dopo, nel 1367, si ripropose lo scontro perché quattro medici di Venezia, il più famoso era Guido da Bagnolo, definirono Petrarca “uomo buono ma ignorante” (“sine literis virum bonum”).  - Vedi come viaggiano le frasi: questa tornerà capovolta sulle penna di Tolstoj, che di Čechov in una lettera scrisse: “uomo buono, anche se medico”.

 

Da qui, la scintilla per il più famoso dei trattati petrarcheschi, il De ignorantia appunto, di cui si sono ripetuti già certi concetti essenziali: curare il corpo mortale non è curare, appunto, il già morto? Proprio l’immedicabile morte dovrebbe suggerire che lo scopo dell’uomo sulla Terra non è durare, ma caso mai esservi felice (concetto su cui già insisteva l’amatissimo Agostino: Confessiones, De beata vita, De Trinitate, ecc.)! 

 

E la felicità non ha a che fare con la conoscenza, come dice invece la prima fatidica frase della Metafisica di Aristotele, filosofo faro per tutti i medici del medioevo e per i ministri dell’istruzione di tutti i tempi!, ma con il mai insegnabile amore.

Dunque, e qui il giro si chiude: senza amore, sapere e curare – e vivere -, a che serve?

 

“A che serve sapere cos’è la virtù, se una volta conosciuta non la si ama?” 

(F. PETRARCA, De sui ipsius et multorum ignorantia).

 

Dato ciò, come scriveva già nelle Invective, sarà mille volte meglio dei pappagalli di Aristotele, Avicenna e Averroè, la minimale e casta imitazione di Cristo della vecchierella da chiesa: anche lei, come Petrarca, “ignara” (“sine literis”) ma devota…

 

°*°*°

 

P.S.

 

Al di là della tenzone teoretica, Petrarca battè tutti sul piano incontestabile dei fatti. 

Egli infatti campò moltissimo (settant’anni in un mondo senza frigoriferi, antibiotici e acqua calda!…) applicando alla lettera il consiglio che rileggeremo sempre nel Molière del Malato immaginario, e, ancora intatto dopo mezzo millennio, nelle lettere del dottor Čechov: Cosa fare quando ci si ammala? Nulla.

 


 

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