“…che
si dovrebbe fare quando si è ammalati?”
“Nulla.”
(MOLIÈRE,
Il
Malato immaginario)
1.
Per
la scienza che sa contare i peli sulla faccia del leone e le gobbe
delle nostre budella, la domanda costante di Petrarca è la stessa
di Cary Grant ad Ann Sheridan, brava a guidare una moto stando in
piedi sul sellino (Ero uno sposo di
guerra, Howard Hawks, 1949): “A che
serve?”
“A
che serve, io domando, conoscere la natura delle belve e degli
uccelli e dei pesci e dei serpenti, e ignorare e trascurare la
nostra natura di uomini e lo scopo per il quale siamo nati, e dove
siamo diretti?” (F.
PETRARCA, De sui ipsius et multorum ignorantia).
Anche
se sembra Čechov, sette
secoli non passano invano. Ormai sappiamo che, quando la risposta
è un assordante silenzio, e proprio come chiedere alla Luna che
ci faccia in ciel: l’errore è nella domanda.
Consoliàmocene:
la probità congelante imposta da epistemologie ormai secolari sul
cosa alla Signora Scienza - e alla Luna - si possa chiedere e cosa
no, avrà aumentato le nevrosi, rendendoci in compenso
filosoficamente un po’ meno impresentabili (e sempre così
quando un galateo incombe come un Super-Io eccessivo: non si
toccherà più nemmeno un crostino, ma risparmiandosi almeno le
figure peggiori!).
Ecco.
Rispetto
a queste wittgensteiniane ovvietà, Petrarca è talmente più
indietro, che con certi discorsi potrebbe vincere le elezioni in
un Paese a piacere tra Oriente e Occidente: intanto perché,
proprio lui che sapeva tutto, si ostinava nella ciancia che essere
buoni sia più importante che essere sapienti! - Da ciò
l’assioma perfino adesso assai diffuso (malgrado bulimie
irrefrenabili per palmari satelliti e cellulari!), che una scienza
eticamente scapestrata sia quanto di peggio ci si possa augurare.
Quanto
alla medicina vera e propria, le domande insolenti e insolute sono
almeno un paio. In Petrarca le leggi sia nelle Invective
contra medicum che nel De
sui ipsius et multorum ignorantia, ma torneranno
puntuali nelle lancinanze metafisiche sia di Benn
che di Bulgakov, Čechov
e Céline:
-
perché
curare l’uomo se
non lo si ama?…
-
e,
posto anche che lo si ami infinitamente, perché
dannarsi
tanto
per la cura del suo corpo sempre più cadente, quando si tratta
comunque di prolungare qualcosa che non
dura?
Che
poi, insisterà sarcastico Molière
(che sulla medicina, malgrado i secoli, fa con Petrarca un tandem
perfetto), almeno ci riuscisse!…
°*°*°
2.
Tra
il 1351 e il 1352, papa Clemente VI
si ammalò; Petrarca gli offrì allora un consiglio che troveremo
identico sia nel Malato immaginario che nelle
lettere del dottor Čechov:
per non aggiungere. a quella che già ti ha preso,
la “malattia dei medici” (MOLIÈRE,
Il malato immaginario, Atto III, sc. IV),
scegliti un medico solo! èvita la babele delle cento diagnosi, négati
al labirinto dei mille rimedi, schiva la prosopopea
incomprensibile dei consulti!
In
quella lettera del 12 marzo del 1352 (Familiares,
V, 19), può darsi che la cosa gli abbia preso la mano.
Vi ritroviamo infatti espressioni sui medicastri perfino simili a
certe idee che l’italico guardasigilli attuale, Castelli, nutre
verso i magistrati che pur amministra! Petrarca infatti scrive che
i medici son gente oscenamente libera: al punto da poter accoppare
i pazienti senza pagarne mai le conseguenze. – Soprattutto, che
faccia bene o male, il medico è per lo più un rètore,
dispensatore di chiacchiere al posto di rimedi.
Molière
si nutrirà di
identiche evidenze e dello stesso senso comune (siamo del resto in
tempi ancora senza “progresso”: ancora niente microscopi, né
vaccini, né una chirurgia plausibile): “Tutta l’eccellenza dell’arte loro
consiste in un pomposo gergo, in un cicaleccio, che vi dà parole
per ragioni, e promesse per fatti” (Il
Malato immaginario, Atto III, sc.III): se la cura
funziona è un caso, “dato che tutta la loro scienza non è che
fumo negli occhi” (Don Giovanni,
Atto III, sc. 1). Se invece i medici sbagliano, a
differenza di un calzolaio, che “quando fa un paio di scarpe,
non potrebbe rovinar un pezzo di cuoio senza pagarne le spese”,
possono “rovinar un uomo senza rimetterci nulla”, essendo
“il torto è sempre di chi muore” (Il
medico per forza).
°*°*°
3.
Contro
la lettera a papa Clemente VI di Petrarca, poeta forse in
farnetico?, uno dei medici della corte di Avignone corse a
rispondere punto per punto: accusandolo perfino – venticelli di
calunnia! – d’essere un negromante.
Solo
e pensoso solo quando si trattava del fantasma di Laura e delle
sue pre-amletiche e immedicabili paludi d’accidia, Petrarca non
si tirò indietro.
Scrisse
così le quattro Invective
contro una medicina riconosciuta, tutt’al più, come arte –
almeno metafisicamente intendendo – di bazzecole: come cura, per
di più incerta, per i vomiti e le diarree scombiccheratrici di
quel sacco sostanzialmente osceno che è un corpo (“pertusus
sacculus” è una delle centinaia di definizioni senza scampo
offerte all’amico Lombardo della Seta,
dottore…).
Tra
purghe e clisteri, feci esaminate a naso e orine scrutate in
controluce, siamo in un mondo che non ha niente a che fare con la
poesia, lei sì cataplasma platonico autentico, farmaco perenne
del Tempo canceroso e distruttore di tutto (“habet com tempore
et cum oblivione certamen”)… E’ una cura tanto ardua che, a
confronto d’una pletora – pandemìa? - di dottori, non vi sarà
mai più d’un gruppuscolo, infimo ed eccelso, di poeti
(“Videbis poetas raros…”).
Quindici
anni dopo, nel 1367, si ripropose lo scontro perché quattro
medici di Venezia, il più famoso era Guido da Bagnolo, definirono
Petrarca “uomo buono ma ignorante”
(“sine literis virum bonum”).
- Vedi come viaggiano le frasi: questa tornerà capovolta
sulle penna di Tolstoj, che di Čechov in una lettera scrisse:
“uomo buono, anche se medico”.
Da
qui, la scintilla per il più famoso dei trattati petrarcheschi,
il De ignorantia
appunto, di cui si sono ripetuti già certi concetti essenziali:
curare il corpo mortale non è curare, appunto, il già morto?
Proprio l’immedicabile morte dovrebbe suggerire che lo scopo
dell’uomo sulla Terra non è durare, ma caso mai esservi
felice (concetto su cui già insisteva l’amatissimo Agostino: Confessiones,
De beata vita, De
Trinitate, ecc.)!
E
la felicità non ha a che fare con la conoscenza, come dice invece
la prima fatidica frase della Metafisica
di Aristotele, filosofo
faro per tutti i medici del medioevo e per i ministri
dell’istruzione di tutti i tempi!, ma con il mai insegnabile
amore.
Dunque,
e qui il giro si chiude: senza amore, sapere e curare – e vivere
-, a che serve?
“A
che serve sapere cos’è la virtù, se una volta conosciuta non
la si ama?”
(F.
PETRARCA, De sui ipsius et multorum ignorantia).
Dato
ciò, come scriveva già nelle Invective,
sarà mille volte meglio dei pappagalli di Aristotele, Avicenna e
Averroè, la minimale e casta imitazione di Cristo della
vecchierella da chiesa: anche lei, come Petrarca, “ignara”
(“sine literis”) ma devota…
°*°*°
P.S.
Al
di là della tenzone teoretica, Petrarca battè tutti sul piano
incontestabile dei fatti.
Egli
infatti campò moltissimo (settant’anni in un mondo senza
frigoriferi, antibiotici e acqua calda!…) applicando alla
lettera il consiglio che rileggeremo sempre nel Molière del Malato
immaginario, e, ancora intatto dopo mezzo millennio, nelle lettere del dottor Čechov: Cosa fare
quando ci si ammala? Nulla.