“I
medici, lo si sa, son tutti porcaccioni…”
(F.
CÉLINE, Viaggio al fondo della notte)
E
le infermiere?
Sempre
nel Viaggio
di Céline, nella clinica per alienati di Vigny-sur-Seine c’è
Sophie, infermiera e slovacca. Per lei euforia da eros senza
riserve: “gioia vivente” “armonia fisiologica”, “la sua
sola presenza somigliava a un’audacia nella nostra casa
scontrosa, paurosa e losca” (Ibid.)…
In Kundera, qualcosa di analogo in uno dei racconti di Amori ridicoli:
“Cara
Elisabet, io proprio non capisco. Ogi giorno lei fruga dentro
ferite in suppurazione, buca deretani raggrinziti di vecchi,
fa cliesteri, porta via padelle. Il destino le ha offerto
un'invidiabile occasione per capire la natura corporea dell'uomo
in tutta la sua metafisica vanità. Eppure la sua vitalità
è incorreggibile. Nulla scuote la sua voglia ostinata di essere
corpo e nient'altro che corpo. I
suoi seni sono capaci di strofinarsi contro un uomo a cinque
metri di distanza! Mi gira la testa, davanti alle eterne circonvoluzioni
descritte dal suo instancabile sedere mentre cammina. Al diavolo,
si allontani da me! I suoi seni hanno l'onnipresenza di Dio!
E' già in ritardo di dieci minuti con le inezioni!”
(M. KUNDERA, “Il Simposio”, in Amori ridicoli)
Peggio che nei Promessi
Sposi, però, ne L’insostenibile
leggerezza dell’essere,
la Grande Storia, coi suoi cataclismi da sussidiario, irrompe – dyabolus ex-machina - nella
vita del neurochirurgo Tomaš, allontanando ospedale e
infermiere.
Ora
l’imbarazzo inevitabile è che è Tomaš a rinunciare prima alla
chirurgia e poi del tutto alla medicina! Il perché resta qualcosa di opaco e inesplorabile
per lo stesso autore, che contempla e commenta i fatti da
scrittore settecentesco, senza truccare mai la sua voce da verbo
di Dio. Kundera
infatti sa che Tomaš è suo come
don Chisciotte è di Cervantes: molto poco.
Ecco i termini di una sorte essenziale e dunque enigmatica.
Malgrado i russi a Praga e la Primavera annichilita, per Tomaš sarebbe
stato del tutto semplice, perfino etico, tornare
a fare il medico. E questo lo
avremmo capito facilmente tutti. Ma, le voci monocordi del
primario (“In fin dei conti, caro collega… lei non è né uno
scrittore né un giornalista, e nemmeno un salvatore della
nazione, bensì un medico e uno studioso…”) e d’un uomo del
regime (“Ma il suo posto è al tavolo operatorio!…”), e poi
lo sguardo di tutti gli altri che solo sperano di specchiare nel
suo adeguarsi la loro ignavia, lo spingono a fare il contrario.
Ridursi a essere un medico generico, alla routine senza dramma
d’un’ambulatorio qualunque, era già defilarsi da ciò che
aveva sempre sentito di essere: “poteva dedicare a
malapena cinque minuti a ciascun paziente; prescriveva aspirine,
redigeva certificati di malattia per i datori di lavoro e inviava
i malati a visite specialistiche. Non si considerava più un
medico ma un impiegato.”
Solo nella chirurgia, invece, il destino:
La
chirurgia porta l’imperativo fondamentale della professione
medica fino al limite estremo, dove l’umano tocca il divino.
(…)
Dio,
si potrebbe dire, ha previsto l’omicidio, ma non la
chirurgia. Non si immaginava che qualcuno avrebbe avuto il
coraggio di infilare una mano dentro un meccanismo inventato
da lui, imballato con cura nella pelle, sigillato e chiuso
agli occhi dell’uomo.
Quando
Tomaš appoggiò per la prima volta il bisturi sulla pelle di
un uomo sotto anestesia e poi incise la pelle con gesto
energico e l’aprì con un taglio netto e preciso (come fosse
stata un tessuto inanimato, un cappotto, una gonna, una
tenda), provò la breve ma intensa sensazione di compiere una
profanazione. Ma era proprio quello ad attrarlo!…
(M.
KUNDERA, L’insostenibile leggerezza dell’essere)
Resta allora aperta sul vuoto la domanda:cosa può essere più essenziale
di una vocazione? Ogni risposta, come quasi sempre, un tradimento.