“e
tutto quanto il ver pongo in obblio!”
(Il
pensiero dominate, v. 106)
“natura,
illaudabil meraviglia”
(Sopra
un bassorilievo antico sepolcrale, v. 46)
Con
Leopardi giovane, siamo subito al punto in cui ogni allegrezza è una
dimenticanza. Con conseguenti lodi di tutto quanto faciliti l’accesso
a stati dell’essere ilari e obliosi: vino, droghe, sonno, velocità, e
in genere tutti i generi di suspance di una vita affettiva e fattiva...
Eppure,
anche quando questa era la strategia principe del giovane ultrafilosofo,
Leopardi sapeva anche le gioie, poi sempre più prevalenti, del
contrario: perché proprio “l’eccessiva
curiosità del vero ci procura molti piaceri” (Zib.
179).
Ci
si avvita così in un paradosso del resto indispensabile.
Perché,
proprio “l’eccessiva curiosità” fa inevitabilmente conoscere e
sentire sempre e solo che “nessuna cosa è assolutamente
necessaria”, e che “cioè non v’è ragione assoluta perch’ella
non possa non essere” (Zib.
1341). Ogni cosa è infimo arbitrio del Nulla,
discontinuità effimera del Vuoto.
Ma
allora, nella lampante assenza di un Dio e di un senso, come
divertirsi
del (e dal!) fatto che,
benché “benignissima del tutto, ed anche de’ particolari generi e
specie” (Zib. 1530), l’essenza vera del
procedere della Natura
sia lo zero irrimediabile della morte? - Per chi ha spirito e
non gnagnera, proprio verso tutto questo nasce prima il piacere semplice
di saperlo,
e poi quello - geniale - del saperlo
cantare.
Questo
è l’ultimo campo sterminato per strategie del piacere da togliere il
fiato: anche se per i più, o, come dirà Tristano, per le “masse”
(“per usare questa leggiadrissima parola moderna”), si tratterà
inevitabilmente di strategie di piacere eccessivamente scabrose.
E’
infatti solo con l’adulta sapienza del Nulla che si può giocare il
gioco del canto e della danza, della musica e della dimenticanza che
azzera nella sua bellezza la morte che si dimentica senza dimenticare: “L’infinità
della forma del dire poetico è il punto più alto al quale
l’esistenza dell’uomo può giungere nel suo tentativo di sollevarsi
al di sopra del nulla. Il nulla
e
la poesia
sono i termini essenziali della dialettica dell’esistenza, che sta per
presentarsi” (E.
SEVERINO, Il nulla e la poesia).
Se
in Italia ci volle il suo tempo plurisecolare almeno per intuire
queste cose, Schopenhauer disse
tutto subito in un solo lampo di righe quando scrisse che Leopardi - e
nessuno come lui - rappresenta
il nulla della vita “con tanta varietà di forme e di espressioni,
con tanta ricchezza d’immagini che non suscita mai insofferenza, ma
rimane sempre stimolante ed avvincente.” (Il
Mondo come volontà e rappresentazione, IV, 46).
“Varietà
di forme e di espressioni” è proprio quanto Leopardi ammirava negli
uccelli, “esempi di sveltezza e vispezza”
(Zib.
1716), cima spettacolare dell’euforia d’essere che
ovunque palpita nella “illaudabil meraviglia” del creato (Sopra un
bassorilievo antico sepolcrale, v. 46).