“Felicità
non
è altro che contentezza del proprio essere
e
del proprio modo di essere, soddisfazione, amore
perfetto
del proprio stato, qualunque del resto esso stato
si
sia, e fosse pur anco il più spregevole.” (Zib.
4191)
Avrà
anche ragione Ceronetti - o
addirittura la Valduga! - quando
sottolinea il vano ardore adolescente di Leopardi, il quale del piacere
“parla sempre en philosophie,
e in astratto, perché non conobbe che le frustate del desiderio, rese
micidiali da una sensibilità da vertigine.” ("Chamfort,
Leopardi e Qohélet",
in Qohélet).
Però
- tra Operette,
Canti
e Zibaldone
- non è difficile catalogare gli innumerevoli casi di una pratica
costante e quotidiana di piaceri disseminati come una polverina d’oro,
un polline fatato, in tutti gli interstizi dell’esistere: una luce nel
cielo, una lettura, un canto, come proprio un desiderio amorosamente
coltivato, un eureka matematico, un viaggio, lo stesso dolore che solo
si sospende sfumando nel sollievo del nulla, la stessa morte.
Il
perché di questo talento Garboli lo
racconta con un’iperbole: “come non si può superare la velocità
della luce, così non si può sentire la vita più di Leopardi” (“Introduzione”
a G. Leopardi, Canti).
Sia proprio così, perché però
la libido
non vada via a perdersi dispersa e disperata, occorrono strategie del
tutto consapevoli, che, nel caso del Nostro, la sapienza degli anni
renderà sempre più lucide e paradossali.
Riconosciuta
infatti sin da quasi bambino l’importanza della varietà e della
ricchezza della vita, e il valore essenziale del miracolo del vigore del
corpo, il punto per Leopardi neppure ventenne è quanto
e come tutto questo possa durare prima
di venire mortificato dall’irrompere di sapienze l’una più nefasta
dell’altra: le stesse, né più né meno, che furono insopportabili
perfino per il giovane Buddha: malattia, vecchiaia, morte.
Chiaro
che la prima strategia sarà allora tutta una rete di negazioni e
inganni sospensivi dell’evidenza: per procurarsi ignoranze, ahimè,
non più pure e intatte come quelle del “garzoncello” ancora
innocente di tutto.
Così,
il celebre “nel pensier mi fingo” è lì a dirci che per Leopardi,
già a poco più di vent’anni, il piacere nasce da una trama
d’inganni, del resto in gran parte spontanea e naturale:
un’inflorescenza autoallucinante da euforia di endorfine, rispetto a
una realtà di per sé, invece, deprimente e mortifera: e la Natura è
provvida proprio per non farcene accorgere, per farcene, con un quasi
niente di benessere, dimenticare.
La
piccola Terra, la
“pallottola” (Dialogo d'Ercole e di
Atlante), è allora ancora
il migliore dei mondi possibili: perché, sonnambuli euforici, ci è
ancora concesso di crederlo.