“Tout
homme qui pense est un être cor-rompu”
(J.
J. ROUSSEAU, cit in Zib. 56)
Il
passaggio dalla poesia idilliaca, puramente e oppiacea dell’infinito
vago e fittiziamente ricreato, a quella del limitato mortifero mondo del
vero - il cielo vuoto, il deserto, il vulcano, il conte Pepoli, Gino
Capponi... - cambierà il fatto che sempre e in ogni caso tutto ciò sarà
rifatto in “canto”?
Forse
neanche un po’, poiché qualunque fatto può finire nel frullatore
magico della poesia ma solo a patto di diventare una “forza”
(Zib. 136) che fa
del magma informe e ustionante del dolore una forma che, appunto, ormai
canta: “Se veramente fossero rimasti soltanto la noia e il disprezzo,
il canto non risuonerebbe, non esisterebbe”; sempre, anche quando vede
il proprio nulla, la poesia è un “respiro dell’anima”, un “aura
di prosperità” (Zib.
136)
Entropia
è anche il passaggio che da Natura decade, nell’uomo, a coscienza e
Ragione. Così, moderni e dissenatamente ragionevoli come siamo ormai, succederà che nel piacere poetico
l’inganno della bellezza sarà sì “fantastico”, ma lasciando
all’intelletto, “in mezzo al delirio dell’immaginativa”, il
sapere “benissimo ch’ella vaneggia.” (Zib.
777). La sospensione dell’incredulità di Coleridge è
infatti una magalda insufficiente all’inganno necessario? Chissà. Nel
tempo amletico e spleenetico del moderno, quello in cui “non è
arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute” (Dialogo
di Timandro e di Eleandro), resta -sofisiticheria da
virtuosi dell’autoinganno! - concedersi un varco ironico e gentile,
delicato e profondamente innamorato, quello per cui “Io
sapeva perché oggidì non si può non sapere, ma quasi come non
sapessi” (Zib.
214).