“la ragione
senza notizia del sistema del bello, delle illusioni,
entusiasmo ec.
e di ciò che spetta all’immaginazione e al cuore,
è essa
medesima un’illusione e un’artefice di mitologia,
come lo sono le
dette cose” (Zib. 1841)
Essendo
la vita più grande della verità, è vero solo ciò che serve, e solo
finché serve.
La
verità è “necessaria all’uomo, soltanto come unico fondamento di
quelle credenze che sono necessarie alla sua vita, perciò tutta quella
parte di verità che non serve di fondamento a queste credenze, è
indifferente all’uomo, anzi nociva, anche nello stato presente di
corruzione” (Zib.
414).
Che
sui poteri della Ragione sia sempre necessario tornare a definire i
fondamentali?
Intanto:
è la Ragione che è parte della Natura, e non viceversa. E questo,
posto che non si sappia niente di Kant e di Rousseau, lo leggi proprio
all’inizio dello Zibaldone
scritto nel modo più semplice possibile:
“la natura è grande, la ragione è piccola” (Zib.
14).
Scriverà
Jaspers, a proposito delle presunzioni della Ragione, grande inventrice
di metodi e scienze, che sarebbe curioso e paradossale che l’uomo si
lasciasse giudicare tutt’intero da qualche procedura - solo perché
“scientifica” e “tecnica” - inventata da lui stesso.
Sarebbe
come ritrovarsi a subire la sindrome di Stoccolma per un rapitore-automa
creato da noi stessi. Il che avrebbe senso per un Pigmalione che
s’incanta per le belle donne che crea, meno per un Frankenstein
ingegnere di neuroscienze, psicologie, matematiche, informatiche, ecc.:
potremmo ritrovarci ad obbedire a qualcosa di peggio del computer pazzo
di 2001. Odissea nello spazio!
Una
ragionevolezza del tutto depurata dalla sua origine poetica, e cioè
umana, sarebbe follia distillata, disumanità al suo grado eccelso:
“Chi non conosce la natura, non sa nulla e non può ragionare, per
ragionevole ch’egli sia. Ora colui che ignora il poetico della natura,
ignora una grandissima parte della natura, anzi non conosce
assolutamente la natura, perché non conosce il suo modo di essere.” (Zib.
1834-5); “La stessa essenziale inimicizia della
ragione colla natura la pone in necessità di perfettamente conoscerla,
il che non si può senza sentirla” (Zib.
1842).
Come
si legge in Kant, ciò che chiamiamo “verità” è una zattera sul
mare insondabile del mondo; noi stessi siamo fatti molto più di mare di
quanto siamo zattera. Per quanto sapienti saremo allora di noi stessi,
l’essenziale resterà, come pensava Wittgenstein, comunque oltre il
bordo delle parole: pulsante e indicibile.
Leopardi
anticipò straordinariamente la necessità di un pensiero che nella sua
essenza deve restare sempre poetico e sentimentale: “perchè la stessa
freddissima ragione ha bisogno di conoscere tutte queste cose, se vuol
penetrare nel sistema della natura, e svilupparlo. L’analisi delle
idee, dell’uomo, del sistema universale degli esseri, deve
necessariamente cadere in grandissima e principalissima parte, sulla
immaginazione, sulle illusioni naturali, sul bello, sulle passioni, su
tutto ciò che v’ha di poetico nell’intero sistema della natura.
Questa parte della natura, non solo è utile, ma necessaria per conoscer
l’altra, anzi l’una dall’altra non si può staccare nelle
meditazioni filosofiche, perchè la natura è fatta così.” (Zib.
1833).
Già
solo per esistere, non meno dei vecchi esausti e degli adolescenti
innamorati, anche “la geometria e l’algebra hanno bisogno della
poesia” (Zib.
1839): senza l’euforia della conoscenza, infatti, la
scienza non produrrebbe teoremi ma suicidi.