“La ragione
        è un lume, la Natura vuol essere illuminata 
        dalla ragione
        non incendiata” (Zib. 23)
         
        In pittura un segno troppo maniacalmente esatto, invece di
        riprodurre il calore palpitante di un corpo, ne fa un cadavere
        ingessato: è il tipo di precisione che premia il pusillanime, e
        purtroppo fu la tragedia di quelle sculture di Michelangelo che, morto
        lui, si prese a levigare. Poi, per fortuna, il buon Dio una volta tanto
        intervenne, e il levigatore fu fatto morire prima che portasse a termine
        quello scempio di esattezza.
         Allo stesso modo, una filosofia troppo esatta,
        portando all’inevitabile scoperta della diseconomia di ogni azione
        generosa, porterebbe alla morte quella stessa vita che pretenderebbe di
        capire e interpretare...
        
        Per
        aderire alla vita, abbiamo bisogno di filosofie sufficientemente imprecise, di
        illusioni adeguatamente sfumanti: progetti che come uno sfondo
        leonardesco degradino verso il dolce cielo di una speranza
        meravigliosamente infondata e sorprendentemente necessaria: foss’anche
        il “dover essere” di Kant o addirittura di ogni bravo capitano di
        Conrad, naturalmente.
         
        Nel caso di Leopardi, è la scrittura “il suo modo di
        fronteggiare il nulla che ogni giorno s’insinua nelle pieghe della
        vita, il modo per attingere - oltre di esso - il piacere d’esistere” 
        (A. Prete e S. Natoli, Dialogo su Leopardi). 
         
        Al contrario, una ragione scientifica che pretendesse di
        avere in sé la mappa intera dell’universo, sarebbe come un uomo che
        scambiasse l’oasi precaria, che il deserto gli concede raramente tra
        le dune, nel centro sicuro e inevitabile del deserto stesso, tutto per
        lui riconducibile a quell’oasi. Ma chi parla così, deve aver smesso
        da tempo di essere un carovaniere del deserto.
        