"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 8, luglio  2004

 


Elogio degli uccelli di Giacomo Leopardi

 

 

10.  La forza della forma

 

 

 


(Avviso: l'articolo che segue è lungo e difficoltoso. Tranquillamente saltabile soprattutto 

per chi non coltivi dimestichezze filosofiche con ogni probabilità appena malsane)

 

 

 

“L’opera del genio è l’alternativa, non perché riesca a salvare dal nulla, 

ma perché è l’ultimo galleggiare dell’essere, prima di affondare nel nulla...” 

(E. Severino, Il nulla e la poesia).

 

Finché il sentimento del nulla di tutte le cose è un memento mori, e il pretesto per lasciarsi cadere tra le braccia di un dio qualsiasi, tutto a rigore è facile.

Sarebbe una specie di prova ontologica all’incontrario, e cioè: proprio l’insostenibilità morale dell’inesistenza di Dio ne proverebbe l’esistenza. Se funzionasse, avrebbe il vantaggio di salvare perfino Bambi e Babbo Natale.

Così, naturalmente, per chi si contenta.

 

All’opposto, per chi sente la fredda nullità del nulla, e la morte come morte, per chi abita la tautologia della vita come tale, il compito di esistere è un po’ più complicato. - Inizia infatti un doppio gioco: da una parte la sospensione più lunga possibile di quanto sarebbe mortifero e paralizzante sapere troppo; dall’altra, con la morte stessa, un duello sottile: per fare proprio di lei, del suo dolore insensatissimo, un’area erogena per la nostra coscienza bisognosa di vivere, di amare, e di ridere. 

“Quel che accade sia per te un’occasione”, raccomanda Hölderlin: appunto, foss’anche la caduta dell’anestetico velo di Maya, proprio la sapienza dell’immensità del Nulla universale e dell’assenza di ogni Mamma-Dio, può riscattare dal naufragio di noi stessi: purché un genio sappia cavare anche per noi, dalla verità del nulla, un canto: 

 

“...quando la poesia è opera del genio, il contenuto della poesia mostra la verità, cioè la nullità di tutte le cose, mentre la forza dell’opera poetica, ossia la forma della poesia (e anche della filosofia in quanto opera di genio) «è una certa bellezza e grandezza che riempie l’anima» (Zib. 260)...”  (E. Severino, Il nulla e la poesia).

 

Allora può accadere che “l’anima riceve vita, se non altro passeggiera, dalla stessa forza con cui sente la morte” (Zib. 261). Da questo sentire, ed è la svolta di Leopardi, nasce un canto non più del mondo fittizio delle illusioni infantili (l’infinito che “nel pensier mi fingo”) ma del mondo così com’è... 

 

Questa è infatti la scoperta: “la stessa visione del nulla, quanto più essa è intensa e profonda - quanto più è autentica la sua verità -, tanto più essa avverte la propria forza, e cioè, daccapo, avverte come pienezza la propria nullità, e dunque si illude.” (E. Severino, Il nulla e la poesia).

 

“Questo significa che “la natura è... smisuratamente più forte della ragione” (Zib. 214-5).”

Quindi il pastore errante dell’Asia canta, e la ginestra profuma di sé un deserto che la ignora. Ed il filosofo solitario dell’Elogio degli uccelli , a differenza di san Francesco, negli uccelli non ha da lodare che loro stessi, senza ridurli mai a pura figura della sapienza creatrice di un Dio.

 

Serve, infine, ancora un passo.

Il canto, questo gesto di generosità immensa, questo regalo della vita alla vita, della vita all’“universo che non sa niente” (Pascal, Pensieri), è il frutto a sua volta di un’illusione vitale: che almeno questo, che almeno questo amore, abbia un senso. Il che non è, perché niente lo ha. Perché, se esistesse un senso, vorrebbe dire tornare a credere che Dio esista.

 

Allo stesso tempo, questa illusione di senso e di bellezza che impone - per pura frenesia, scrive Leopardi -  al canto di vivere, non è qualcosa che la ragione possa confutare come se fossero le magalde sceme del mago Otelma. Questa illusione, infatti, è la vita stessa. 


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