(Avviso:
        l'articolo che segue è lungo e difficoltoso. Tranquillamente saltabile
        soprattutto 
        per
        chi non coltivi dimestichezze filosofiche con ogni probabilità appena
        malsane)
         
        
         
         
        “L’opera del genio è l’alternativa, non perché riesca a salvare dal
        nulla, 
        ma
        perché è l’ultimo galleggiare dell’essere, prima di affondare nel
        nulla...” 
        (E.
        Severino, Il nulla e la poesia).
         
        Finché il sentimento del nulla di tutte le cose è un memento mori, e il pretesto per lasciarsi cadere tra le braccia di un
        dio qualsiasi, tutto a rigore è facile.
        Sarebbe una specie di prova ontologica all’incontrario,
        e cioè: proprio l’insostenibilità morale dell’inesistenza di Dio
        ne proverebbe l’esistenza. Se funzionasse, avrebbe il vantaggio di
        salvare perfino Bambi e Babbo Natale.
        Così, naturalmente, per chi si contenta.
         
        All’opposto, per chi sente la fredda nullità del nulla,
        e la morte come morte, per chi abita la tautologia della vita come tale,
        il compito di esistere è un po’ più complicato. - Inizia infatti un
        doppio gioco: da una parte la sospensione più lunga possibile di quanto
        sarebbe mortifero e paralizzante sapere
        troppo;
        dall’altra, con la morte stessa, un duello sottile: per fare proprio
        di lei, del suo dolore insensatissimo, un’area erogena per la nostra
        coscienza bisognosa di vivere, di amare, e di ridere. 
        
        “Quel che accade sia per te un’occasione”,
        raccomanda Hölderlin: appunto, foss’anche la caduta dell’anestetico
        velo di Maya, proprio la sapienza dell’immensità del Nulla universale
        e dell’assenza di ogni Mamma-Dio, può riscattare dal naufragio di noi
        stessi: purché un genio sappia cavare anche per noi, dalla verità del
        nulla, un canto: 
         
        “...quando la poesia è opera del genio, il contenuto della poesia mostra la verità, cioè la nullità di
        tutte le cose, mentre la forza dell’opera poetica, ossia la forma della poesia (e
        anche della filosofia in quanto opera di genio) «è una certa bellezza
        e grandezza che riempie l’anima» (Zib.
        260)...”  (E.
        Severino, Il nulla e la poesia).
         
        Allora può accadere che “l’anima riceve vita, se non
        altro passeggiera, dalla stessa forza con cui sente la morte”
        (Zib.
        261). Da questo sentire, ed è la svolta di Leopardi, nasce un canto non più del mondo fittizio
        delle illusioni infantili (l’infinito
        che “nel pensier mi fingo”) ma del mondo così com’è... 
         
        Questa
        è infatti la scoperta: “la stessa visione del nulla, quanto più essa
        è intensa e profonda - quanto più è autentica la sua verità -, tanto
        più essa avverte la propria forza, e cioè, daccapo, avverte come
        pienezza la propria nullità, e dunque si illude.”
        (E. Severino, Il nulla e la poesia).
         
        “Questo
        significa che “la natura è... smisuratamente più forte della
        ragione” (Zib. 214-5).”
        Quindi il pastore errante dell’Asia canta, e la ginestra
        profuma di sé un deserto che la ignora. Ed il filosofo solitario
        dell’Elogio degli uccelli ,
        a differenza di san Francesco, negli uccelli non ha da lodare che loro
        stessi, senza ridurli mai a pura figura della sapienza creatrice di un
        Dio.
         
        Serve, infine, ancora un passo.
        Il canto, questo gesto di generosità immensa, questo
        regalo della vita alla vita, della vita all’“universo che non sa
        niente” (Pascal,
        Pensieri),
        è il frutto a sua volta di un’illusione vitale: che almeno
        questo,
        che almeno questo amore, abbia un senso. Il che non è, perché niente
        lo ha. Perché, se esistesse un senso, vorrebbe dire tornare a credere
        che Dio esista.
         
        Allo stesso tempo, questa illusione di senso e di bellezza
        che impone - per pura “frenesia”, scrive Leopardi -  al canto di vivere, non è
        qualcosa che la ragione possa confutare come se fossero le magalde sceme
        del mago Otelma. Questa illusione, infatti, è la vita stessa.