"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 8, luglio 2004                                        


Ogni scrittore, come ogni persona, ha le sue stelle d’orientamento, e a sua volta è stella (danzante?) per altri. 

Proviamo a segnalarne qualcuna

 

L'Elogio degli uccelli di Giacomo Leopardi 

 


 

5. Franz Kafka

 


 

Le cornacchie affermano che una sola cornacchia potrebbe distruggere il cielo. Questo è indubbio, ma non prova nulla contro il cielo, poiché i cieli significano appunto: impossibilità di cornacchie” (Aforisma di Zürau n. 32).

 

Che è l’opposto di quanto invece supponga Giobbe che retoricamente chiede: “Chi prepara al corvo il pasto quando i suoi nati gridano a Dio e vagano spinti dalla fame?” (Gb., 38, 41). Gesù, più didattico, ripete e chiarisce: “Osservate i corvi: non seminano né mietono; non hanno dispensa né granaio eppure Dio li nutre. Quanto più gli uccelli valete voi” (Lc., 12, 24).

 

Se Kafka, scrivendo l'aforisma, aveva avuto presente la Bibbia, siamo di fronte a un caso tipico - come tanti aforismi di Oscar Wilde e di Karl Kraus - di capovolgimento del detto comune. Sappiamo del resto che i testi amano seguire strade e trovare incroci di cui l’autore non è tenuto a sapere alcunché.

 

 

Continaundo a essere impertinenti: è probabile che la glossa migliore a queste righe misteriose sia il quadro più famoso e disperato di Van Gogh: corvi come crepe nere che feriscono il cielo e il grano, annunci di un oltre buio e abissale che presto dilagherà sul resto del cielo e del grano. 

 

Mai ci sarà dato tanto. Strisciamo allora nella tana del dizionario, per imparare almeno che cornacchia in tedesco è Krähe, nome, come del resto in italiano, dai suoni mimetici e sarcastici. Mentre in ceco, come si sa, cornacchia è proprio kavka... Questo sottotraccia bilingue farà definitivamente dell’aforisma un autoritratto

Intanto: “Le cornacchie affermano...”

 

Poiché parlano, le cornacchie sono un popolo da favola. Ma chi scrive non è Esopo ma la cornacchia Kafka: si potrà pensare allora al popolo dei topi di Josefine la cantante ovvero il popolo dei topi:? – Il coro dei topi di Josefine si sente popolo in quanto escluso ed opposto al canto della vecchia topolina: voce così flebile da farsi quasi solo mentale, assordante per suo stesso acutissimo difetto di voce

 

I topi verso Josefine, e le cornacchie verso il cielo, hanno dunque un tono minaccioso, cospiratorio, rancoroso e al tempo stesso inane. - Più paradossali e teologiche dei topi, le cornacchie “affermano” di essere tutto ciò che il cielo, vulnerabile e sarcastico, non può permettere che siano.

Dunque?

 

A proposito di teologia, tra gli aforismi di Zürau, ce n’è uno che sottintende forse la stessa superbia esatta delle cornacchie. Dice: “Se fosse stato possibile costruire la torre di Babele senza scalarla, sarebbe stato concesso”(n. 18). Qui mancano i soggetti, che però sembrano facili: anche qui, c’è un popolo a cui sarebbe concesso (dallo stesso cielo che sovrasta le cornacchie?) di cospirare contro il cielo. Come per le cornacchie, purché l'attentato di Babele si fermi da sé a un pelo dal suo trionfo, tutto è ammesso: è ammessa la torre che tocchi il cielo, ma come cattedrale deserta, monumento alla possibilità e alla rinuncia... 

 

 

Raggiungere un poter essere che rinunci ad essere è dunque la via? Come nell’aforisma in cui Kafka immagina Alessandro Magno che - nonostante sia Alessandro Magno - non varca l’Ellesponto (n. 39)?

Ma si legga soprattutto la tautologia del n. 58: “Si mente il meno possibile soltanto se si mente il meno possibile, non se si ha il minimo possibile di occasioni per farlo.”

Non vale non mentire se non quando si può mentire, così come non vale nessuna fedeltà se non quando si può tradire: ora, poiché le cornacchie solo “affermano” è possibile persino pensare che questo sia un aforisma sulla santità delle cornacchie!...

 

 

Ipotesi quasi finale: laforisma ci regala una delle tante varianti di Kafka per un’etica sempre più cristallina della rinuncia, e cioè della purezza? ...Come quando, altro aforisma, Kafka scrive: “nella lotta tra te e il mondo asseconda il mondo” (n. 52)?  O come quando scrive di quella “perfetta possibilità di felicità” che consiste nel “credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo” (n. 69)?... Tutte figure che ricordano tanto Simone Weil quando scrive che, se la salvezza per lei fosse stata posta a portata sul suo tavolo, ma senza il permesso di prenderla, lei non avrebbe steso la mano (Attesa di Dio)...

 

Ma questa è una mistica, sgorgata dal silenzio dell’attenzione, mentre le cornacchie, come l’Islandese davanti a una Natura pigra ma pur sempre terrigna e tremenda, “affermano”... - Affermano cose terribili e vere – la distruzione del cielo! – ma senza conseguenze, incastrate giusto nell’istante in cui si prepara ad essere l’inevitabile che pur non sarà... il che potrebbe spiegare perché il cielo, vulnerabile e onnipotente, lasci che le cornacchie siano: anche se solo come cornacchie che “affermano”...

 

 

Glossa che rimette tutto in gioco: forse “Dio” non è così sottile da apprezzare la finezza cavillosa degli scrupoli etici, i quali rischiano di non essere altro che un hybris alla rovescia. Nella sua enciclopedia di impossibilia, Kafka appresta la casistica completa della sorte riservata all'uomo che non si oppone, già nel dickensiano fanciullo di America... anche se soprattutto viene in mente l’uomo di campagna fermo sulla soglia luminosa del suo paradiso nell’apologo atroce posto al centro del Processo; e lo stesso Joseph K., che potendo in qualunque istante fuggire - su questo confida il tribunale? - non fugge.

Come insegnò il Buddha, dunque, non c’è una possibile tecnica della salvezza: nessun fare è di per sé un fare giusto. E su questa faccenda non c’è che da restare frementi e sospesi.

Intanto, quanto alle cornacchie, il sospetto che prende forma è che del loro disastro faccia parte essenziale proprio il fatto che “affermano”: con parole evidentemente non magiche, perché magia – scrive sempre Kafka - è proprio la venuta della “parola giusta” che sa chiamare a sé la vita - il cielo? - docilmente. 

 

E subito si scivola in un altro paradosso: perché proprio l’ultimo bellissimo aforisma di Zürau dice che solo “silenzio e solitudine” hanno la forza di smascherare il mondo, di farlo torcere “estasiato” verso di noi (n. 109): sembra di leggere Meister Eckhardt... anche qui la ricerca di una parola perfettamente muta: la più illeggibile e la più aperta sulla voragine laconica del “Cielo”...

 

(Ma il cielo che si piegherà sulla mia parola magica sarà lo stesso, o il contrario, di quando “una gabbia andò a cercare un uccello” (n. 16)?)

 


 

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