“Si
cominciò a capire la natura quando non la si capì più: quando si
capì
che
essa era l'altra parte, indifferente, incapace di accoglierci.”
R.M.
Rilke, Del paesaggio e altri scritti.
A
dispetto di Guglielmo d’Alvernia che voleva privare i cieli degli
angeli, “stati superiori dell’essere” (Guénon),
l’Eterno continua irresolubilmente a manifestarsi nell’alito di
vento, che gli uccelli, loro fratelli mortali, fendono in volo. Quel
canto è musica di più alte sfere, celesti appunto: impulso
gratuito, come vibrato nell’istante inevitabile della rivelazione.
Non è dunque un caso che la Tradizione ebraica attribuisca i propri
Libri Sapienziali a una gherusia di pennuti che ne dettò il
contenuto a Salomone; né che l'Islam tanto abbia in gloria la
lingua alata, esoterica e iniziatica, lembo dorato del caritatevole
Splendore. Del resto anche tra di noi, celti e cristiani, Sigfrid e
Colombano assumono il carattere di eroe e santo -almeno secondo il
genio categorico di san Gregorio Magno- anche perché, senza sapere
come, d’un tratto possono tradurre simultaneamente
il cip cip.
Ma
si sa, il dio è nelle piccole cose, nel grano della senape come nel
diamante d’una mola (mon cher Monsieur Baruch), e non ci è dato
distinguerlo dalla Natura. Sicché è a essa che occorre accostarsi,
come un convitato alle nozze metafisiche.
Scriveva
Messiaen:
"Per
me l’unica autentica musica è sempre esistita nei rumori della
natura. Il suono armonioso del vento negli alberi, il ritmo delle
onde marine, il timbro delle gocce di pioggia, dei rami spezzati,
dell’urtarsi delle pietre, dei vari gridi di animali costituiscono
per me la vera musica” (Antoine
Goléa, Rencontres avec Olivier Messiaen, 1961).
Studiarla
musicalmente dunque, quale fonte primigenia del suono, e dispiegarne
la trama ritmica, che è vibrare esatto dei suoi strumenti.
Nondimeno mai scadere nel trastullio giocoso delle onomatopee, dei
birignao, e nella vecchia
fattoria-ia-ia?
Messiaen
suonava l’organo alla Santa Trinità di Paris; lo amava,
quell’organo, se ne sarebbe separato solo in punta di spada,
siccome un cantore Sahel del suo liuto. E – amorosa coincidenza –
a metà Settecento si usava proprio un organo, con certo meccanismo
a carillon, per insegnare motivetti leziosi ai cardellini da
boudoir. Messiaen studiava musiche primitive, raccoglieva i
repertori introvabili di Curt Sachs e Marius Schneider, frequentava
anche ritmiche indù e cinesi, il modale, l’atonale, e mai avrebbe
trascurato di scendere dabbasso, all’angolo della strada, dal
macellaio di quartiere, casomai gli riuscisse di carpire i segreti
della cesura metrica (macellaio nell’etimologia è magheiros,
lo scalcatore-metricista greco).
Sopra
tutto amava gli uccelli, “maestri
massimi”, e sull’esempio di Clement
Janequin e
Athanasius Kircher
ne trascriveva devotamente il canto. Trasse così un corpus
sontuoso, dal Catalogue d'oiseaux
e La Merle noire per
piano e flauto, sino agli Oiseaux
exotiques, e al Réveil
des Oiseaux, opera, questa, composta per i gaddiani
centoventi professori d’orchestra, con tanto di xilofoni e
celesta…sicché via libera a trilli, tremoli, glissati, volate
eccellentissime e cadute a picco.
"Ho
un buon rimedio contro la stanchezza: appena ascolto il canto di un
uccello eccomi guarito. Non patisco più il freddo né il caldo né
la fame: ascolto l'uccello.”
(Messiaen,
Musique et couleur. Nouveaux entretiens avec Claude Samuel,1986)