“...e se non
              pensa in ver né sente
              il topo o il
              can, di dubitar concesso
              m’è del
              sentire e del pensar mio stesso.”
              (Batracomiomachia,
              VII, 13)
              
               
              Quale incontro mancato, e che fantastico divertimento è
              stato tolto a noi altri da un Dio per l’ennesima volta in vena
              di avarizia! 
               
              Perché Leopardi di Darwin sarebbe stato il cantore
              geniale e irriverente, il bardo perfetto da gettare nella zuffa
              inevitabile, dopo la scoperta che l’uomo non decadde da un
              angelo ma emerse - giusto ieri e ancor non s’è ripreso! - da
              una scimmia più sciammannata delle altre!
              Leopardi lettore dell’Origine
              delle specie avrebbe trovato conferme perfette
              delle sue intuizioni del lato non solo scimmiesco ma volatile
              dell’uomo, come di quello pre (o post?) umano degli uccelli!
              
              Giochiamo a fare i plutarchini e dunque notiamo che le
              date dei due in buona parte quasi coincidono, anche se Leopardi,
              più vecchio di una decina d'anni, precede sempre l'inglese di un
              paio di lunghezze.
              
              Infatti, quando Leopardi scrive lo scandaloso Frammento
              apocrifo di Stratone da Lampsaco (1825) in cui il
              nostro mondo appare appena come uno degli infiniti possibili,
              Charles Darwin sta per iscriversi alla facoltà di medicina di
              Edimburgo, che abbandonerà però disgustato nel 1827: proprio
              mentre Leopardi scrive Il
              Copernico e il Dialogo
              di Plotino e di Porfirio.
              Quando poi Darwin comincia il viaggio sul Beagle, il 27
              dicembre del 1831, a Leopardi, che ha pubblicato da pochi mesi la
              prima edizione dei Canti,
              manca una sola pagina per chiudere definitivamente lo Zibaldone.
              
              Il 1836 è l’anno in
              cui, mentre a Napoli esce la seconda edizione delle Operette morali, subito del resto sequestrata
              dalla polizia, Darwin
              torna dal suo lungo viaggio in Inghilterra: è ricco di materiali
              e di taccuini. Soprattutto, coltiva la fondamentale intuizione sui
              fringuelli delle Galapagos, tutti forse discendenti da una stessa
              matrice. 
              
              Ma, mentre il Leopardi che nell’Elogio ponendo gli uccelli in
              cima alla scala degli esseri fa la figura di un poeta con
              l’hobby pedestre e domenicale d’una filosofia
              cialtrona,  la nuova osservazione
              degli uccelli di Darwin sta per generare un terremoto universale
              peggiore perfino del cosmo senza centro e senza bordi di
              Copernico...
              E, ahimè, quando, nel 1859, esce  The Origin
              of Species,
              Leopardi
              è già morto da ventidue anni,
              e certo nessuno ricorda i testi che subito andiamo
              a riassumere.
              
              La visione del regno animale come un unicum in cui le
              specie si dispongono secondo differenze appena graduali e mai di
              sostanza, è presente in Leopardi già in scritti infantilissimi,
              come la Dissertazione
              sopra l’anima delle bestie (1811), scritta ad
              appena 13 anni e in cui si legge che “sembrami di poter
              concludere con sicurezza, che la sentenza, la quale afferma esser
              l’anima dei Bruti uno spirito dotato di senso, di libertà, e di
              un qualche lieve barlume di ragione è certamente più probabile
              di ogni altra”.
               
              Ancora una volta, cosa fosse il genio di Leopardi è
              davvero misterioso anche solo provare a intuire. E stupefacente è
              la circolarità tra questa conclusione d’un testo precocissimo,
              e quanto si legge nei Paralipomeni
              della Batracomiomachia di ventidue anni dopo (1833),
              ove di nuovo tra animali (i “bruti”) e uomini le differenze
              sono riconosciute appena come gradazione di una stessa sostanza.
               
              “Certo esser
              dee che dalla intelligenza
              De’ bruti a
              quella dell’umana prole
              E’ qual da
              meno a più la differenza,
              Non di genere
              tal che si rigetta
              La materia un
              di lor, l’altro l’ammetta.” (VII 12)
               
              Tornando indietro, proprio “scimia” era l’uomo già
              nel Dialogo
              di un cavallo e un bue (1820), mentre nelle Operette
              vere e proprie il dileggio per la specie che s’ostina a
              credersi più immagine d’un dio inventato che parte della comune
              famiglia di piante ed animali, è sparso un po’ ovunque, e
              soprattutto nel divertimento di descrivere una Terra dove
              l’umanità s’è da tempo naturalmente estinta.
              
              La certezza (Zibaldone)che
              scienza e arte siano accomunate in una stessa intuizione poetica
              della natura trova proprio in Leopardi conferme abbaglianti.
              E
              non solo con Darwin: ogni fisico può raccontare la coincidenza totale tra il Cantico del
              gallo silvestre e il secondo principio della
              termodinamica che Carnot definì
              - casi cosmici - nello stesso anno in cui Leopardi scrisse
              l’operetta, il 1824.