“...perché
le parole e gli scritti importano poco.”
(Dialogo di Timandro e di Eleandro)
Ah,
l’Italiano, che occasione sprecata!
Una
lingua non meno che “immensa”, e tale già per “quella sua immensa
facoltà di dare ad una stessa parola, diverse forme, costruzioni, modi
ec.” (Zib.
1332) e che pure ogni giorno perde bellezza di vocaboli e di
costruzioni, come uno spaventapasseri i suoi stracci al vento.
Possibile
che i cosiddetti Romantici (che poi qui da noi non sarebbe mica come
dire sétte di forsennati lettori di Novalis
o quanto meno del Werther,
ma blandi propugnatori del cattolicesimo applicato alle lettere!) non si
rendano conto che non è abbassando la lingua da Kafka
al papà di Kafka che si inventerà la Letteratura Universale? Tanto
vale dedicarsi all’esperanto!
L’aristocraticità
inevitabile del bello sarà anche una cosa imbarazzante quasi quanto
mangiare con coltello e forchetta al tavolo di chi mette i gomiti nel
brodo, ma non la si risolverà mica, come faceva Zeno
ipocondriaco, prendendo a zoppicare solo perché si va a spasso con
l’amico con artritico!
Né
basta tirarsi fuori dal mucchio selvaggio, e farsi una lingua levigata
come una gipsoteca del Canova; e lì
rifugiarsi come in un Nirvana, fuori dal diluvio del Tempo, in un per
sempre neoclassico di casta bellezza bianca!
Questo
perché “non basta che lo scrittore sia padrone del proprio stile.
Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: in ciò consiste la
perfezion dell’arte, e la somma qualità dell’artefice” (Zib.
2611). A loro volta, le “cose” non stanno ferme neppure
un minuto, per cui anche “la lingua cammina
sempre, perch’ella segue le cose le quali sono instabilissime e
variabilissime” (Zib.
754). - Guicciardini non
direbbe meglio.
Figurarsi
però se Leopardi può contentarsi di indicazioni, per quanto
inappuntabili, così generali. La risposta sorprendente, e ostica del
tutto per la patria di Rosmini e Metastasio,
è infatti cosa
il Nostro intendesse per una lingua che fosse “padrona delle cose”:
averla sarebbe il vero salto nel Moderno, trattandosi di una lingua che
deve assolutamente impregnarsi del meglio della filosofia.
Il
che però apre subito un secondo fronte.
Perché
non si può mettere Locke e Kant
al posto di Monti e
Berchet, dato che, a sua
volta, la filosofia attuale è deserto matematico, gelo della ragione
che tutto calcola, mentre “una lingua non è bella se non è ardita, e
in ultima analisi troverete che in fatto di lingua, bellezza è lo
stesso che ardire... Or questo ardire che cos’è, fuorché la libertà
di non essere esatta e matematica?” - Ad
una filosofia non “geometrica” risponde una lingua altrettanto
ardita e “peregrina” (Zib.
2415 sgg).
Ora,
poiché tutto ciò (una lingua italiana di nuovo “immensa”, allo
stesso tempo ultrafilosofica e spretata!) non è né sarà, e poiché
invece il futuro del Paese è in mano alle anime belle che credono in un
provvido incedere del Bene verso il Meglio, credenza nuova per cui basta
la grammatica elementare di una fede stupefacentemente “debole” (il
Dio buono, la Patria buona, perfino
la Storia buona!), chi invece volesse armarsi di quanto gli serva per una
battaglia più degna e divertente con l’esistere, ecco, “a questo
tale è duopo apprestarsi prima di tutto una lingua colle sue mani” (Zib. 3327-28).
Il
che Leopardi naturalmente fece, con risultati non meno immensi per il
fatto che la Nazione intera neppure lo prese in considerazione,
abbagliata come rimase dalla soluzione proposta dal romanzo di Manzoni,
per cui “a nessuno poteva passare per il capo che le Operette
morali reggessero il paragone” (C.
Dionisotti, Appunti sui moderni).
Ecco,
adeguatissima, una diagnosi della lingua delle Operette:
“...andamenti funzionali allo
sviluppo lineare del pensiero e alla sua impareggiabile chiarezza,
non senza effetti anche di rallentamento melodico e di
“filosofica” pacatezza: nessi correlativi, strutture anaforiche,
sequenze binarie, frequenza di incisi esplicativi, ecc. Questi
ultimi caratteri non andranno tuttavia sopravvalutati rispetto alle
continue sorprese che la mobilità stilistica consegue in parallelo
con la variazione fantastica: contrasto e dramma, emozione e «movimento»...”
(L. Celerino, Operette Morali, Letteratura Einaudi).