"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 7 maggio 2004
"Fondamenta degli Incurabili" di Iosif Brodsky |
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6. Specchi
E più tardi un angelo, schiudendo le porte rianimerà, gioioso e fedele, gli specchi appannati e le fiamme morte. (La morte degli amanti, CXXI, I fiori del male, C. Baudelaire) Assicurava Leonardo esser il mistero della Luce imperscrutabile, esattamente come quello di Dio, che nell’eterno sacrifica ininterrottamente Se stesso a Se stesso. Tale e quale uno specchio dunque, che si ostina a reprimere nell’abnegazione più santa la propria vanità, onde casomai rifletter meglio le volubilità altrui. Mistica sarà dunque quella mappa di riflessi, perché erosa delle ricordanze più untuose e personali, arruolata nel vuoto dell’io, restituita alfine a una verginità sacrale: incorporeo viatico alla perfezione. Venezia – si sa - è eccentrica; i suoi specchi tradiscono spesso certa volontà di sberleffo. Capita, infatti, che eclissandosi in contumacia, essi si neghino, ma finiscano per negare persino chi li osserva. La loro indole – l’aveva intuito Brodskij - è quella tipica d’un pozzo taciturno: dissenziente eppure indifferente. “Inanimati per natura, gli specchi delle camere d'albergo sono poi resi ancora più opachi dall'aver visto tanta gente. Quella che ti restituiscono non è la tua identità, ma la tua anonimità, specialmente in un luogo come questo. Perché qui tu sei l'ultima cosa che ti interessa vedere” (Fondamenta degli Incurabili,11). E ancora: “Abituati da secoli a non riflettere altro che la parete di fronte, gli specchi non si decidevano a restituirti il tuo viso, erano riluttanti, per avarizia o per impotenza; e quando ci provavano, le tue sembianze tornavano indietro incomplete” (Fondamenta degli Incurabili, 22). Quali i motivi di simile ritrosia? Ma è ovvio! Assecondare un superno imperativo esoterico, il Noli me tangere dell'Intelligenza pura. E noto, infatti, che se certa irruenza dei corpi sgomiterà sempre per sfidare l’esile essenza nostra, provando a tradurla in gabbia, ahimè, nelle fattezze scostumate d’una frale compagine corporale, certo è che Venezia se ne farà mai mallevadrice. No, no, nessuna cedevolezza, il suo scandalo è di ferrea trasognatezza. Del resto, come dubitarne? Quegli specchi conoscono fin troppo bene i versi di Borges: “Consideré que estabamos, como siempre, en el fin de los tiempos”; persino le fiamme luminescenti della Campo: “Amo il mio tempo perché è il tempo in cui tutto viene meno”. Ed è proprio quella certezza di irriducibile rovina a inverarli. Sono dannati, perdutamente, eppure talismani salvifici, ché sotto le mentite spoglie del servilismo, sgranano lacerti di verità. Le medesime intuite da Böhme, ciabattino sublime, ovverosia: ogni immagine è sempre un abisso tenebroso, vasto tanto quanto il dominio della Luce; i due mondi vivono compenetrati, non già astratti nelle categorie di Mani. Salvezza sarà, dunque, riflettere NOI le cose d’attorno, farsi per una buona volta “miro e angelico templo” del concreto visibile: liquidi, trasparenti: “l'immagine sarà uno specchio che guarda noi” (Emo, 1972, Q. 349).
Tutto è raddoppiato, meno il destino e menoLa stessa H2O; ma come in ogni moltiplicazione, si tende ad arrotondare, e l’ozioso azzurro i tetti azzera. (I. BRODSKIJ, da “Strofe veneziane (2)”)
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