"Il Compagno segreto" - Lunario letterario. Numero 7 maggio 2004

 

"Fondamenta degli Incurabili" di Iosif Brodsky


 

 


14.  Saggezza del lavoro

 

 

Non vi occorre vedere che cosa uno fa

per sapere se quella è la sua vocazione,

 

avete solo da guardare i suoi occhi:

il cuoco che mescola una salsa...

(W.H. AUDEN, Horae canonicae)

 

 

“Dopo tutto, è difficile tenere sotto controllo contemporaneamente la vita e il lavoro. Perciò, se si è costretti a passare sopra a qualcosa, è meglio che lo si faccia con la vita.” (Intervista a Brodskij).

E questa è una morale da brividi. Così estrapolata, la frase avrebbe la firma sia del chirurgo che del killer di grido.  O sarà proprio per questo vera universalmente? – Per Brodskij il lavoro salva dal dolore perché dà senso al tempo: proprio ciò che, per il bravo papà dell’Aut-aut di Kierkegaard, farebbe invece una buona vita familiare. 

 

Chissà se Jung potrebbe aiutare a distrigarsi almeno un po: la “vita” su cui “passar sopra” è introversa, sentimentale, psichillogica, amletica: tende all’ozioso, allo stantio, si sperde nei capillari dei sofismi dolorosi: lasciata insomma a se stessa, è neghittosa e non va da nessuna parte. Il che è ciò che alla fine conta, no?

Il lavoro invece salverebbe perché è sempre estroverso! Spinge alla creazione, traendo da noi qualcosa che – infine – è pur sempre al di fuori di noi stessi: una cosa consegnata al bene del Mondo che, esente dai nostri dolori, vivrà libero fino all’ignoranza del suo feritissimo creatore (ed è quasi il Dio esausto che leggi allinizio dei Veda!)... - Già per questo, il lavoro, a differenza di tutto il resto, è amico del tempo, lo stesso tempo che smorza tutto il resto (Poiché l’orologio continua il suo cammino, con gli anni / il dolore si attenua(“Ninnananna da Cape Cod, in Poesie).

 

Vecchia storia in ogni caso: conta ciò che si è o ciò che si fa? - Brodskij: facile, poiché non si è niente… 

 

Da ciò un’evidente insofferenza – da ruvido russo e yankee snob? – per la psicanalisi, sulla quale un po’ di battutine sparse come pepe lieve in tutti i saggi. In ogni caso, meglio soli: “Solitudine è l’uomo al quadrato” (“Urania” in Poesie): La solitudine insegna l’essenza delle cose, poiché anche quella / Essenza è solitudine. (“Ninnananna da Cape Cod, in Poesie); “mi piace l’idea di essere isolato. Mi piace la sua realtà. Ti rendi conto di chi sei… e non è detto che sia gratificante. Nietzsche ha espresso il concetto con queste parole: un uomo che è abbandonato da se stesso rimane solo con il porco che è in lui”  (Intervista a Brodskij).

 

L'essenziale, sia l’amore che scrivere (più scrivere),  è roba per solitari. Lavorare a Venezia, sapendo poco l’italiano e per di più mentre si fa sempre troppo Wagner e Ciajkovskij (“L’uno vale l’altro, per quanto riguarda la mia allergia”, Fondamenta degli Incurabili), quadra il cerchio alla perfezione: “In tutti questi anni, in questa serie di lunghe soste e brevi soggiorni, credo di essere stato felice e infelice quasi in uguale misura. Non aveva molta importanza, del resto, se non altro perché io venivo qui non per scopi romantici, ma per lavorare….”  (ibid.); “E poi, a una certa età, e quando si fa un certo genere di lavoro, essere riamati non è strettamente indispensabile. L’amore è un sentimento disinteressato, una strada a senso unico.” (ibid.).

 

 Nessuno ha nulla da fare qui, la notte. Né un’ugola d’oro

Né la dolce Duse. Batte un tacco solitario

Sopra l’acciottolato.

La vostra ombra, come uno spaurito carbonaro,

si allontana da voi sotto il fanale

ed espira vapore. Di notte noi si chiacchiera

col nostro stesso eco…

(da “Strofe veneziane (1), in Poesie)

 


 

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