Venezia,
settembre 1955
A
Venezia per il Festival, in attesa del carnevale di Benedetti
Michelangeli, che però si sa mica se suonerà, ogni sera
l’annuncio “CONCERTO ANNULLATO” e tanta comprensione e
contrizione… Si dice che il Divino stia chiuso in casa, da solo,
e musichi le opalescenze della notte… Ma le damazze mitriate
fremono comunque, e coi nervi fuori di pelle armano e disarmano
ogni pomeriggio bigodini, volpini e visoncini…
A
Venezia per Ordet di
Dreyer e l’Angelo di Fuoco,
con uno Strehler già abbastanza mago, “la camicia aperta fino
alla cintura, e le mani aggrovigliate in tutte le tasche”. Ma
soprattutto per perlustrazioni birichine nel ghetto antico,
volendo anche pei boschetti di mortella di san Giorgio Maggiore,
tra “costruzioni armoniose, chiostri di classico, sereno
respiro”.
Poco
importa, allora, se gli alberghi risulteranno tutti occupati, si
troverà pur sempre una locanda dabbene, da Grand Tour
settecentista, con tanti velluti eliotropio e poltrone amatorie e
ametista: Pensione Fortuny? Comunque, già prenotati da casa, ben
stirati nelle tasche tutti biglietti dei concerti. Precauzione
infondata, ché al botteghino festivaliero vale lo spavaldo
frusciare di “passi” e tesserine, e “…congressista!”.
La
mostra di Giorgione e i Bellotto dalla luce calda, le rilegature
di Marinis e gli affreschi medioevali jugoslavi; la casa di Peggy
Guga in una giornata di cielo bituminoso, quando uscire non si può
e allora? Restiamo qua, che tanto, quando la Signora è assente,
è prescritta ospitalità greca per tutti!, e poi la biblioteca è
così esoterica e vampirica…
A
Venezia passando il tempo a osservare i numeri più pittoreschi,
mimi truccati che mangiano funghi sott’olio tra l'Harry's Bar e
Ciro, “giacche da uomo nere, blazers a rigoni larghi gialli e
lilla, abiti mauve, sempre da ometto, e uno in tuxedo e shorts,
però coi calzettoni neri alti. Donne somiglianti a poltroncine
Louis-Philippe, avrebbero fatto la gioia di Savinio. Ci sono
alcune signore Stone coi loro ganzi locali, un paio di vecchi
dall'aria estremamente bambina, un clergyman alla deriva, una
grande tumida alta due metri e dieci, e due americani giovani che
litigano calpestando impermeabili di plastica…”
Insomma,
una giovanissima scorribanda arbasina, vezzosa e affilata: penna
mobile sul registro dei toni, come dire: i topoi, da Topolino a
Tiepolo; pure, un certo afflato-effluvio deliquescente e alcionio,
in specie quando si parla di Margot Fonteyn e mezzepunte storiche.
Et Pourtant, ci son talmente tante mezze calzette per i potini più
spiritosi!
Nondimeno
un gran controllo, e che rigore!, da indagatore nella Provincia
sonnolenta, soprattutto se Fortuna offra per compagni di viaggio
dei vecchini veneti facili facili alle confessioni più grasse,
sentimentali e “ai tempi di Comisso…”
“I
fantasmi che mi sono venuti dietro durante il viaggio erano
fatti accaduti a me, fatti accaduti ad altri e sentiti
raccontare, fatti immaginati. Si confondevano queste immagini di
globe-trotters a San Provolo, sciacquando il nylon nella
fontana, e la immensa donna barbuta, apparizione senza rumore
nei più vari luoghi, e spalanca gli occhi sconcertanti, come
fuggita per sempre dall'opera di Stravinski; e il cartolinaro
che dice “leonsini”; le memorie notturne del
terrazzino davanti alla Canottieri Bucintoro, chiusa dentro la
mostra dei grassi De Chirico, e dicendo “lucido mobili ma in
attesa di imbarco” volgeva la testa per il bacio, ma questo
accadeva più in là, dall'altra parte del canale, dietro i
Frari, al fondo di una calletta cieca, e nel movimento si
scoprivano i favi ripugnanti nel collo; sera passata in qualche
hotel particulier a accarezzare dita ossute coperte di anelli; e
le lacrime della fanciullina per un gatto fuggito dietro il
cadente San Zaccaria, ma consolata sorride alle parole “ne
porteremo uno più nuovo e più bello”; da Treviso in
macchina quasi ogni giorno su e giù per il traghetto al Lido, e
le fotografie tratte a sera dal portafoglio al caffè, revisione
critica della fama usurpata (luogo veramente comune?) di Venezia
città meravigliosa ma sciocca: fotografie chiamate “di
Azione Cattolica”, venivano da un oratorio di Castelfranco
Veneto quelle insignificanti facce dei pretesi campioni in
letto; la crollante abbazia verso la Misericordia, il magazzino
d'antiquariato, e in bilico sulla poltrona zoppa a vedere i
Magnasco tirati fuori dal servo per intercessione del Longhi, e
il profilo sotto il cappello di paglia sfrangiato di Lady Diana
Cooper, fulgida ancora come una Cleopatra in imprimé, barene
d'erica, e barconi di verdura fatiscente, l'amore stesi sul
fondo, ma una patata indolenzisce il fianco, odor di catrame; la
giovinezza più fresca, per poco, si rifugia dentro certi caffè
(proprio sulle palafitte; andate ci e vedrete) alle Zattere, a
due passi dai Veronese, non potremo fare a meno mai più delle
suggestioni miasmatiche di Mann, forse, anche se il vecchio
terribile è morto, non vale niente chiamare la Morte a Venezia
l'opera di un Comisso nordico e inibito, altra scena
nell'alcova, casino degli spiriti, tutto nero, negra nera
vestita di nero contro lo sfondo omogeneo, fragili porte
dipinte, un Canaletto qui e uno là, e dalla serratura possono
spiarsi dentro un letto da Volpone gli amplessi, non è
possibile se non con gli occhi di Kokoschka e De Pisis vedere
ancor la Salute, e questo album di Romano sfogliato nella
trattoria buranella dove “Branduani” non potrà rimare
che con “Vellani” - o con
“Vergani” - fra il
tonno arrosto e le firme degli amici, poi nuovo bric-à-brac
decadentistico, mosaici di Torcello, pas-de-deux sul pratino,
fotografia della Garbo con dedica lunga lunga e un telegramma da
Edimburgo “dopo ho preso la polmonite, ma valeva la
pena.”
(Alberto
Arbasino, Parigi o Cara, Prima edizione Feltrinelli,
dicembre 1960)