“Ora
sono un simbolo tremante di cose più grandi di me”.
(Hoffmansthal)
Una
grande salle à
manger, mobilia arcigna
e altera, il tramonto avvampa già nel sangue, tragico aggrapparsi
alle tende. Gli effluvi del tè svelano spirali di memorie
dimenticate: silenzi, incontri, viaggi esotici in su la cuna del
mondo. Uomini eleganti sussurrano menzogne, viluppati in scialli
d'eccentricità. Uno di loro s'alza, prende a sibilare un sonetto
di D'Annunzio. Appena schiusa la prima quartina, un'altra voce,
fulminante e necessaria, gli si insinua a contrasto. Giunge
turgida, perentoria, dall'angolo più buio del salone, e i versi
ne risultano come trasfigurati. D'un tratto persino gli stucchi
son lambiti da insospettabili sottigliezze, trascurate sino ad
allora dalla dizione poltosa del primo dicitore. E' D'Annunzio
quel canto, è il poeta in persona, ormai decrepito, che intona i
propri versi. Così in una pagina dei Diari
di Harold Nicholson, così Stelio Effrena a Venezia: un guizzo di
Fuoco nel gemere silenzioso d'aria e pietre: la città che
impoltriva nelle morbidezze dell'agonia prende d'incanto a
maledire la propria stessa decadenza, rifiutando, superba, la
solidarietà inerte dell'oblio di sé.
Eppure
tutto è fola, irrequietezza che giunge puntuale al momento di
partire, sferzata d'orgoglio di tra quei congegni squamosi che son
i congedi. Il destino di Venezia è immalinconire, avvinghiarsi
alle foresta dei propri pali (“ce ne vollero un milione
soltanto per sorreggere la Salute; e non basta”). Ovunque
ruggine tizianesca, fulva di malaffare, a corrodere le dorature
trapassate. E persino le bitte d'ormeggio, incatenate alle proprie
radici, ad avvilirsi sullo sviolinio insinuante delle zanzare (han
già lasciato il posto all'interventismo di mosche melliflue).
Venezia
muore marcendo, e Stelio Effrena, compositore wagneriano, ovvero “pigrizia dorata di trarre da una canna la pienezza di un
suono” (Mandel'stam), potrà far solo le mostre di
addolorarsene (ma intanto goderne). La città "lussuriosa,
autunnale e regale" lo eccita: è la caritatevole fiamma che
lenisce la lebbra, è la vampa morbosa su cui rosolare il tedio di
vite comuni.
Dopo,
solo il crepuscolo: il lume incerto che non mai trafigge la
parola, ma ne manifesta l'esoterico significato: “La mutua
passione di Venezia e dell'Autunno, che esalta l'una e
l'altro al sommo grado di lor bellezza sensibile, ha
origine in una affinità profonda; poiché l'anima di Venezia,
l'anima che foggiarono alla Città bella gli antichi artefici, è
autunnale. Avendo io
scoperta la rispondenza tra l'esterno spettacolo e l'interiore il
mio gaudio ne fu moltiplicato indicibilmente. […] E - poiché la
luce del cielo
s'avvicenda con l'ombra ma la luce dell'arte dura inestinguibile
nell'anima umana - quando cessò nelle cose il prodigio dell'ora,
il mio spirito si trovò solo ed estatico tra le magnificenze di
un Autunno ideale” (Il fuoco,
1900).
Hugo
von Hoffmansthal si trova d’accordo. La
lettera dell'Ultimo dei Contarin, abbozzata di lì
a poco, è in tal senso esemplare. Lì indurisce lo sguardo del
mendicante, lì si fa d'ardesia a furia di speranze illacrimate,
eppure ancor guizzante ammirazione cupida e servile. Il segnale:
solo allora si comprende come sia vizzito ogni blasone di
famiglia, quanto sia più savio smetterla,
cessare di cercare “nel Gotha quelle che avevano
diciassette anni, adorne di meravigliosi nomi antiquati come gli
antichissimi severi monili bizantini”: “il possesso
delle singole cose conviene ad anime infinitamente più fresche,
più ingenue; a noi conviene solo il Possesso Ipotetico”.
Nulla
può davvero restaurarsi: "lo splendore delle perle gli
antichi lo avevano dentro”.
Per
chi non tenga in conto i ripicchi vendicativi del Tempo, rimane la
compagnia, a tarda sera, dell'eco frantumata di barbagli remoti: “Sull'eternità allunga le mani chiunque a derubarla, ma essa
è rena” (Mandel'stam).