"Arrise
a uno di sollevare il velo della dea di Sais. E bene, che
vide?
Vide
- meraviglia delle meraviglie - se stesso".
Novalis,
I discepoli di Sais
Solitario
e “nient'altro che un dotto”, incastonato nel monile
della sua villa lucchese come la Dickinson più riservata,
Borchardt non osava dirlo al giardino, confessargli il proprio
lutto. Un dovere coniugale, tra i più delicati, imponeva il
rispetto del silenzio, tacere l’irrefrenabile caduta del
Granitico Impero. Del resto, meglio, molto meglio continuare a
carezzare i bersò trasfigurando in sorrisi le gore disperate,
vezzeggiarlo con idee di Forma e Immaginario, vaste come la notte
e la chiarità (Baudelaire). E altro che lamentazioni sulla
totalità delle macerie della Storia, la sua, della sua Prussia...
Le siepi parevano assecondarlo, in certo modo tenergli testa,
ascoltando ossequiose i precetti e vegliando con lui, a dispetto
della iattura delle mezze stagioni.
Anglomane, “giardiniere appassionato”, astratto e tempestoso,
Rudolpf Borchardt traduceva Dante, e lusingava l'Inattuale
dedicandogli prose turgide, sinfonie librate nel simbolo,
aduggiate di cromatismi: naufragava insomma, naufragava nelle
mucillagini madreperlacee della poesia stefan-georghiana.
Epperò
quale Venezia la sua! Una Visione della e dalla Distanza:
l’Irriconciliabile, lo Struggimento che è Eterna Irrequietezza
baluginata negli occhi blu di Dioniso: un Fiore azzurro alla
Enrico di Ofterdingen, svelato alfine al mistero dei sensi, e per
il godimento loro: vivere la vita nella memoria artistica delle
pietre.
“...all'orizzonte
occiduo, alla riva degli Schiavoni, si notano alberature di
navigli, campanili, le cime svettanti di grandi giardini in
gramaglie. Da ogni parte si vede fluire l'acqua dai canali,
fiottare lungo le banchine, scorrere intorno alle case,
scivolare tra le chiese. Il mare, raggiante e tralucente come
seta e come metallo, avvolge e intride Venezia come un'aureola.
Il Palazzo ducale s'incastona in tutto il resto, come un
solitario in un monile. Non lo descrivo. Ho voluto soltanto
goderlo, senza tentare di capirlo. Nulla si può vedere di
simile in architettura. […] Si Entra; […] Non c’è uno
spazio vuoto o gelido, tutto è animato di statue e rilievi. Qui
l’emendatrice pedanteria del dotto architetto non si è
intromessa per trattenere o arginare la spumeggiante inventiva e
il desiderio di rallegrare l’occhio. A Venezia non si è
troppo rigorosi, non ci si trincera dietro a dogma e dottrina.
Non ci si può indurre a baciare la polvere davanti a una
facciata rigorosamente concepita secondo le regole di Vitruvio;
piuttosto si pretende da un edificio soltanto che prenda e
allieti tutta l’anima.”
(Rudolf
Borchardt, Venedig, 1898)