Barrès,
qu'il brûle en paix!
Gobineau
Faut-il brûler Barrès?
Breton e i suoi non avevano dubbi: il tribunale della Salle
des Sociétés Savantes, quel 13 maggio 1921, lo condannò a
trent'anni di lavori forzati, risparmiandolo a onor del vero del
trattamento privilegiato offerto di lì a poco alla memoria di
Anatole France: giù la salma nella Senna!, “neppure da morto
quest'uomo deve fare più polvere.” (Breton, Un cadavre, 1924)
Cocteau fu assai meno inflessibile: giovane e volage, sulla
scalinata della villa di Neully s'era abbandonato finanche al
Sentimento, e quale addio prolungato in mille baci e moine e scambi
di doni con l'Impresentabile, atrocemente paludato nel nazionalismo
imperdonabile.
La
Morte de Venise è tutt'altr'affaire. Nulla a che vedere col Barrès
politico della Cocarde, “anima disgustata sino al nichilismo,
l'Onore che s'erge solitario, simile a un castello nella landa
bretone”, il famoso Principe della Jeunesse definitivamente
sigillato nella bara della Fierté patriottarda, così retorica e
così pompière, caricatura assediata da tricolori garrenti ed
elmetti schidionanti... In Venise a scrivere è ancora il pallido
dandy ritratto da Blanche: fiore all'occhiello e labbro schiacciato
dal disprezzo; l’autentico filosofo disdegnoso del Culte de Moi,
già abbandonato alle forze trepide dell'Istinto e dell'Inconscio…
Perché, in fondo, “Riconosci in me la piccola scossa per cui ogni
particella del mondo testimonia lo sforzo segreto
dell’inconscio. Dov’io non sono è la Morte, e io secondo
ovunque la via” (Bérénice
nel Culte de Moi).
Estetica
sensista, Religione della Terra e il Sacro nella Primavera. La
classica triade, dunque: Sangue
Morte e Voluttà; e nientissimo assenzio o maledettismo di risacca.
Meglio una buona dosa di timor panico e niccianesimo in progress. Su
tutto, la consapevolezza epicurea che le cose, hélas, anche loro
scompaiono: “Cos'amo nel passato? La sua Tristezza, il suo
Silenzio, e soprattutto la sua Fissità.”
Venezia
ne risulta ischeletrita, depositata sul sudario di pagine
agonizzanti e marcescenti; e il viaggio in laguna per così dire
trasfigurato in un ritorno mitico -gli occhi listati a lutto, le
gondole “bare mute” (Blok) - verso ultima tappa prima dell’approdo
all’isola boekliniana, e chissà se ci attende ancora il Dottor
Moreau? “In qualche ora di gondola visitiamo la breccia, ove il
silenzio e l'alito di morte, già di casa, profetizzano la fine
della civiltà veneziana.” Un tramonto esangue.
Dunque
nessun cedimento alla mitologia libertina e al folklore casanovista:
le camere della musica e dell’amor pagano sono divenute cloache, e
persino il vetro offre più alcuna consolazione: “A Murano nessuna
trasparenza di vita futura, la civiltà morsa dall'opacità
dell'umidore: è qui, nel mezzo dei fiori d'Oriente, che la notte
rende più profumati, mentre l'onda culla le gondole a riva, è qui
che i voluttuosi, gli amanti discreti e i politici giungevano per
attardarsi sotto la maschera. Ma a traverso queste calli, questi
canali oscuri, cinque secoli sono troppo contrariati dalla loro
stessa decomposizione perché i medesimi amanti del romanesque,
[…] dell'estremo autunno, vi possano restare.”
Solo
rimane immune al disappunto l’isola dei morti, san Michele,
dolorosa soglia della pietra inesausta: “Sempre si cercano altrove
i precedenti che promettano alla bellezza una morte intatta.
Sull'estrema laguna, degli isolotti per così dire ondeggiano, là
dove i più begli oggetti s'inabissano senza compromettersi con le
lutulenze della morte...” Per tutto il resto basti il monito di
Toledo, o magari la lapide romana del più savio dei Barberini: Hic
jacet pulvis, cinis et nihil.