"Il
senso anagogico [...] conduce dalle cose visibili a quelle
invisibili; l'anagogia è dunque l'espressione di un senso che conduce
alle cose alte o alla Chiesa, in altre parole alla Trinità e agli
ordini degli Angeli" (Dell'Anagogia,
capo duodecimo, Libro primo).
A
Santa Maria sopra Minerva, giusto accanto al sorprendente affresco
Carraffa di Filippo Lippi, pesa, dimenticato persino dalle fuliggini, un
monumento funebre, cenotafio dalla posa ieratica e silenziosa, issato
forse un po' troppo in alto perché l'occhio nostro di flaneurs se ne
possa accorgere. È la Tomba solenne e maestosa (siccome avrebbe usato
scolpire Bregno nel Quattrocento), la tomba dedicata a Guglielmo Durando
vescovo di Mende, già professore emerito a Bologna e Modena, cappellano
di papa Clemente IV e monsignor castellano nei pressi di Urbania. Uomo
tutt'altro che dugentesco, dall'erudizione sproporzionata e
insospettabile per i proteiformi interessi, a dispetto invece d'uno
stile rettorico tutt'affatto severo, scevro di fallacie ornamentali.
Homo
unius libris,
e non nel senso tomistico, più semplicemente perché autore d'una sola
opera memorabile, e senz'altro monumentale: il Rationale
Divinorum Officiorum, summa di tutte le conoscenze e
tradizioni religiose medievali; trattato che ci apprende l'arte di
trasfondere ogni gesto della liturgia in estasi e meditazione;
"l'ultima parola del Medioevo sulla mistica del culto divino",
secondo scrisse il benedettino Barthelémy, suo primo traduttore
ottocentesco:
"Tutte
le cose che appartengono agli uffici, agli usi o agli ornamenti della
chiesa sono piene di figure divine e di mistero, e ognuna, in
particolare, trabocca di una dolcezza celeste, quando nondimeno incontri
un uomo che le esamini con attenzione e amore, e che sappia trarre il
miele dalla pietra e l'olio dalla più dura roccia"
(Dalla prefazione all'edizione dell'anno 1284).
Dunque,
una questione di sguardi.
"Chi
abbia consuetudine con la propria intimità scorge le aure
nel mondo esterno, chi si ignora, chi non abbia mai avuto un sogno
fatidico, può passare accanto ad esse e neanche voltarsi" (Elémire
Zolla, Aure, 1981). Ma già ne Le
potenze dell'anima, un saggio Bompiani apparso nel Sessantotto,
si trovava annotato: "L'avvio corporale alla vita metafisica è
invece soprattutto col rito, che in gesti abiti, canti oggetti canonici
e specialmente in ritmi, che mediano tra corpo e psiche, simboleggia le
intuizioni metafisiche. [...] "quella che sembra, al profano,
trasognatezza è invero apatia, cassa di risonanza in cui si purifica e
risuona l'intelligenza degli archetipi."
La
partecipazione smarrita e corporea, estatica e raziocinante ai riti: un
accostarsi alla contemplazione dei quindici archetipi del destino
cristiano, finalmente la fervorosa quiete della pietra.