Una
vibrante affinità di modi e tonalità avvince Donne a George Chapman,
Entrambi
helluones librorum, divoratori di libri, capaci di rifiutare la
sistematicità catalogatrice del Genio Bibliotecario, aderendo di
contro all'Unicità invitta del Sapere, con la consapevolezza che
dinanzi a qualunque contemplazione delle realtà solo il commercio
fedele col dizionario può recare il brivido d'un inappellabile
precetto etico.
Del
resto, il Mondo, anche lui ormai si è esaurito, ed “é' più
semplice separare il peso dal piombo, il caldo dal fuoco, l'uligine
dall'acqua, la luce dal sole, che la povertà, l'infelicità,
il cruccio, la calamità e il terrore del pericolo dall'uomo”
(Burton The Anatomy of Melancholy, 1621). Sicché perseguire
fedelmente la brezza libresca! L'Idea ne sarà tratta come evocazione
baluginante e sempre VIVAVIVA i commenti più pedanteschi e
uggiosi!
Anche
la poesia di Chapman si libra dunque dalla metafisica medievale, con
l'apporto già preumanistico e fiorentino delle rifiorenti dottrine
platoniche, e, se possibile, spiccante un afflato ancora più
travolgente del versificare stesso di Donne.
Che
i due si conoscessero o si fossero frequentati in casa di Johnson e
nel salotto della contessa di Bedford non è dato assicurare; certo è
che Chapman “di parecchio precorse [il Donne], poiché il contagio
metafisico era nell'anima sua, ed egli risultava destinato a subirlo” (F.L. Schoell, La poesia di Chapman, 1926).
In
fondo, non è forse la poesia “un incontro che rapisce l'uomo a se
stesso, un interpellato delirio dell'immaginativa alterata”
(Baldassarre Pisani)?