Vacua
gonfiezza, iperletterarietà pretenziosa, mal applicata sottigliezza,
ecco i capi di imputazioni addebitati al Concettismo: una maniera
dilettantesca di titillare l'acume, ingegno greggio nell'innalzar templi
al modo del folle Dietterlin, architetto cinquecentesco, antenato del
savio Doktor Schweitzer.
Gli
strali critici si scatenavano proprio su questa mania secentesca per
l'affastellamento, sorta di irrefrenabile penchant
per il culteranismo, altrimenti detto propensione alla poesia erudita e
artificiosamente abborracciata, dove predomina l'emblematica e
l'araldica sullo scevro versificare.
Emanuele Tesauro
nella sua "elocuzione non solo arguta, ma ludica" del Cannocchiale
aristotelico (1655) ne dava testimonianza inchiodante:
"La
Metafora tutti gli oggetti a stretta li inzeppa in un vocabulo: e
quasi in un miraculoso modo gli ti fa travedere l'uno dentro l'altro
onde maggiore è il tuo diletto: nella maniera che più curiosa e
piacevol cosa è mirar molti obietti per un istraforo di perspettive,
che se gli originali medesimi successivamente ti venissero passando
dinanzi agli occhi."
E
Benedetto Croce poteva, allora,
sentenziare che "l'ingegnosità...
direttamente considerata non poteva essere arte, perché
consisteva in un atto pratico, nella finzione di un pensiero, e di un
sentimento, in un gioco, nato e coltivato negli ozii della vita
cortigiana e accademica e diretto ad ammazzare il tempo col solleticare
l'intelletto senza veramente esercitarlo e nutrirlo nella ricerca e
osservazione del vero. Era essa, dunque, un vuoto teoretico"
(Saggi
sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, 1911).